Signora Merini come mai ha sentito il bisogno di portare le sue poesie sullo spartito?
«La gente non ha chiaro il fatto che un poeta non vive sulle nuvole ma si confronta con il proprio tempo; è un po’ filosofo e un po’ giornalista e soltanto grazie alla curiosità, alla voglia di sperimentare, riesce ad arrivare al cuore degli altri».
Poi c’è stato l’incontro con Giovanni Nuti, compositore e cantautore. È lui che le ha fatto scattare la scintilla?
«In parte sì, anche se io da ragazza già suonavo il piano. La sua musica riesce ad amplificare quello che è già presente nei miei versi. Il resto avviene quasi per magia. Ma ho vissuto anche qualche trauma».
Ad esempio?
«Mettere in musica i miei versi sul manicomio è stata una sorta di catarsi perché, dico io, come si fa a cantare il dolore? Però Giovanni mi è stato sempre vicino come un allievo amoroso e così, più che delle canzoni, sono nate delle leggende sonore».
Qual è stato il momento più toccante di questa sua avventura con la musica?
«Sicuramente la rappresentazione del Poema in Duomo. C’era un pienone incredibile e moltissimi giovani, segno che nonostante tutto esiste un gran bisogno di religiosità nelle persone».
Lei è religiosa?
«A modo mio, ma non sono certo una bacchettona. Diciamo che la mia religiosità è maturata nel calvario del manicomio, anche se...».
Anche se?
«Guardando come va il mondo fuori, certe volte ne ho nostalgia. In manicomio non ho mai visto certe invidie e certe cattiverie, ma anzi tanta solidarietà. A volte penso che là dentro ero più libera di quanto non sia adesso».
Però esiste la poesia. Una salvezza no?
«Guardi che la scrittura non è mica una terapia. Eppoi oggi non è più come una volta, quando noi poeti eravamo in pochi, umili e bistrattati. Oggi la maggioranza di quelli che si mettono a scrivere lo fanno per fare soldi e successo, possibilmente subito. Non capiscono che per scrivere bisogna anzitutto sapersi perdere, mettersi in gioco dal profondo, anche con il rischio di finire in manicomio come è successo a me».
Lei continua ad abitare sul Naviglio.
«Figurarsi. A parte il fatto che di milanesi non ce ne sono più, qui ormai è la capitale del consumismo, dell’egoismo e dell’indifferenza. Eppoi nei bar non si può fumare. E infatti non scrivo più»
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