L'ultimo Schifano. La rivoluzione (artistica) sarà trasmessa in tv

Il pittore diventa accumulatore di immagini casuali, da sovvertire con la pennellata geniale

L'ultimo Schifano. La rivoluzione (artistica) sarà trasmessa in tv

Mi hanno sempre convinto poco le interpretazioni secondo le quali la vita e l'arte di Mario Schifano sarebbero state votate all'"autodistruzione". L'artista inquieto che si consuma, che fa di se stesso l'oggetto di ogni esperienza, anche la più letale, concependo la propria vita come un'opera, è un mito tardo-romantico, da maudit, che non ha affatto smesso di raccogliere ammiratori anche in tempi apparentemente poco romantici come gli attuali.

Chi ha seguito Mario Schifano nei suoi ultimi dieci anni di vita, dunque in quella che sarebbe dovuta essere la parabola conclusiva di un'autodistruzione costante e ineludibile, sa bene quanto l'uomo e l'artista fossero lontani da questa prospettiva.

Un gioco infranto era la comunicazione visiva alla fine del secondo millennio, e Schifano si compiaceva di essere oggetto e soggetto, testimone e testimoniato, immergendosi nella sua dimensione totalizzante. Schifano non guardava più attraverso un mezzo, si era fatto antenna, monitor, cinepresa, macchina fotografica, computer. Gli strumenti non erano più le sue appendici, era lui a essere diventato loro appendice: i suoi occhi valevano quanto un obiettivo ottico o uno schermo televisivo, guardava con loro e loro guardavano con lui.

Schifano, insomma, si era fatto strumento fra gli strumenti, senza perdere mai di vista il proprio ruolo di artista, ma omologandosi a loro nell'accettare il principio di una produzione sempre più massiccia nel numero e immediata nei tempi. La comunicazione non produce più semplici immagini, ma quantità sterminate di immagini in tempi brevissimi: la loro percezione è sempre più quantitativa, non c'è modo di coglierle singolarmente, di distinguerle, di riflettere a lungo su di esse.

Guardare, facendosi recettori di questa produzione immensa e continuata, ecco quello che è diventato il primo compito dell'uomo e dell'artista Schifano.

L'artista prende consapevolezza del suo nuovo ruolo, all'interno di questa rivoluzione, quando dal momento del guardare si passa al momento del vedere. All'interno del mare magnum della comunicazione, l'artista può avere un solo compito: proporre di vedere ciò che sarebbe destinato solo a essere guardato.

Vedere vuol dire leggere, elaborare, concentrare l'attenzione su qualcosa per determinarne un livello di comprensione, un'interpretazione formale che è sempre anche intellettuale.

Ma vedere, nella logica della virtualità adottata da Schifano, non vuol dire contrapporsi al "mondo nuovo": al contrario, vuol dire assecondarlo, accettarne l'inevitabilità e il fascino caleidoscopico, senza inutili fughe verso una natura reale che non avrebbe più ragione di essere se non per il riflesso che proietta su quella virtuale. È la non-natura del video e del digitale, nei nostri tempi, la nuova natura da imitare, il nuovo oggetto di mimesi.

Una, in particolare, è stata la non-natura virtuale privilegiata da Schifano: la televisione, il suo flusso ininterrotto e caotico apparentemente senza ragione, pura alternanza di immagini, dai telegiornali ai documentari, dai quiz alle fiction.

Credo che Schifano non avesse avuto maggiore aspirazione di diventare un televisore umano. Avrebbe gioito se fosse stato oggetto di una nuova metamorfosi kafkiana e un giorno, vedendosi allo specchio, se si fosse ritrovato un monitor al posto della testa, con tutti i pulsanti sul petto per cambiare e guardare quante più immagini possibili.

Siccome era un pittore decise di realizzare un equivalente pittorico di ciò che nel lessico televisivo veniva ormai chiamato "blob". Schifano non produceva ora singole immagini come aveva fatto dieci, venti, trenta anni prima, tutte ben circoscrivibili, tutte perfettamente compiute entro i limiti delle loro tele, senza che vi fosse niente da aggiungere o da presupporre al di fuori della loro stessa esistenza.

Schifano produceva ora masse di immagini, per le quali era la totalità a contare più delle singole manifestazioni.

Se il mondo virtuale è seriale per definizione, doveva pensare Schifano, l'arte non può essere da meno. Il mito dell'arte come invenzione "assoluta", creazione pura e irripetibile, appartiene a un passato in cui era ancora possibile inventare. Oggi, con tutto ciò che viene continuamente inventato, in ogni secondo che passa, ci si limita a rielaborare, a reinventare ciò che altri hanno inventato.

Schifano si era negato anche come mestiere, o almeno un certo tipo di mestiere. Anche nei suoi momenti meno "figurativi", nessuno aveva mai negato le capacità pittoriche di Schifano, nel senso più manuale e artigianale del termine.

Ora Schifano riduceva drasticamente anche quelle, quasi provocatoriamente: si disponeva davanti al televisore e fotografava con un apparecchio Polaroid le immagini che passavano, secondo criteri di casualità o altri che, comunque, mai avrebbero potuto evocare la nozione più tipica di "autenticità".

Bloccate le immagini, Schifano non si preoccupava troppo della loro trascrizione materiale, soprattutto delle operazioni di preparazione del supporto su cui poi decideva di intervenire pittoricamente: i negativi fotografici, trasposti in laboratorio su tela, diventavano le basi fisiche su cui applicare la fase successiva e trascrittiva dell'atto creativo iniziale.

L'arte deve funzionare, secondo Schifano, come un fermo immagine. Basta quel semplice stop, e il "guardato" del mondo virtuale prospetta immediatamente una nuova dimensione percettiva e mentale, il "veduto".

Schifano, l'ultimo Schifano, ci dice che l'arte dei nostri tempi ha il compito, semplice ed essenziale, di rendere visibile il "guardato", bloccandolo, elaborandolo, permettendo che al suo interno ci sia spazio per un gesto pittorico che incrini il principio della serialità assoluta, una volontà artistica che denunci un segno di originalità creativa all'interno dell'apparentemente non originale, anche se rispettandolo pienamente come una volta si sarebbe fatto con il dato di natura.

Un passo verso il futuro, anche a rischio di precipitare nell'abisso.

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