D’accordo, il Molise non è l’Italia. E la presidenza di una Regione non è Palazzo Chigi. E il 40% degli elettori domenica scorsa non ha votato... Va tutto bene: però far finta di niente, come Pier Luigi Bersani, o addirittura, come è capitato a Massimo D’Alema, sostenere che «il voto è andato bene», beh, forse è un po’ troppo. Il Pd in Molise è sceso dal 23,3% del 2006 al 9,8% (alle politiche di due anni fa aveva il 17,9%). La coalizione di centrosinistra, data per vincente alla vigilia, è crollata dal 47% di cinque anni fa al 40,5% di ieri, mentre i partiti del centrodestra (tra cui anche l’Udc) sono arrivati al 56,4%. Considerando lo stato in cui si trova la maggioranza, davvero un risultato brillante per l’opposizione.
Nel disastro del Pd ci sono alcuni aspetti che meritano di essere ricordati, e che anche a Largo del Nazareno non dovrebbero venir sottovalutati. Il primo, inconfutabile, è che non si può pretendere di governare una coalizione - e figuriamoci l’Italia - con meno del 10% dei voti. Il progetto veltroniano dell’autosufficienza e della «vocazione maggioritaria» appare rovinosamente naufragato, e il panorama a sinistra è balcanizzato come ai ben tempi dell’Unione. In Molise ci sono 6 partiti di centrosinistra che superano il 3% (sette, se aggiungiamo Beppe Grillo), e nessuno che oltrepassa il 10.
La frantumazione dello schieramento va di pari passo con una drastica riduzione del peso politico del Pd. L’insuccesso in Molise non è infatti un fenomeno elettorale isolato, ma il segnale di una marginalità politica crescente. I protagonisti delle vittoriose amministrative della scorsa primavera, infatti, non sono stati i Democratici, ma Pisapia e De Magistris, cioè i candidati di Vendola e Di Pietro. Nel migliore dei casi (Milano), il Pd è stato un silenzioso portatore di voti; nel peggiore (Napoli) è praticamente uscito dal Consiglio comunale.
Di fronte a questa crisi, soltanto i veltroniani (e il facondo Beppe Fioroni) hanno reagito con preoccupazione; e per tutta risposta hanno avuto un’accigliata reprimenda da D’Alema. E questo introduce il secondo tema di riflessione: il dibattito interno al Pd. Tramontata l’idea di amalgamare le culture politiche di origine, accantonato il riformismo e rinviata a data da destinarsi la scelta delle alleanze, del programma e del leader, nel Pd si assiste oggi ad un ritorno in grande stile dei Duellanti: da una parte Veltroni, che ha trovato in Renzi il nuovo Messia, e dall’altra D’Alema, che sostiene con tenacia Bersani. Ora che s’è di nuovo polarizzata, la guerra civile nel Pd promette di non risparmiare niente e nessuno. Ne offre un delicato antipasto l’imperdibile D’Alema: «Io che presiedo una fondazione culturale non mi occupo di cosa dicono Fioroni, Verini e Tonini».
In questo quadro, le analisi del voto che vengono dal Nazareno non possono che indurre al sorriso. Sono parole in libertà, il cui filo rosso è dar la colpa agli altri. «Vincono la destra e un inquisito grazie a Grillo», sentenzia il corrucciato Franceschini: che non appare neppure sfiorato dall’idea che la destra ha vinto prima di tutto perché la sinistra ha perso. Il governatore della Toscana, Enrico Rossi, se la prende invece con il candidato-governatore, giudicato oggi «troppo moderato». E Barbara Pollastrini e Paola Concia polemizzano con «una lista di soli uomini». Vabbè.
C’è infine un ultimo aspetto della crisi del Pd: l’intolleranza per le opinioni altrui, la criminalizzazione del dissenso, l’insulto per chi la pensa in un altro modo. Particolarmente esperta in questa pratica è Rosy Bindi, che interpreta il ruolo di presidente del Pd più o meno come Michail Suslov interpretava quello di membro anziano del Politburo del Pcus. Quando il sindaco di Firenze ha ipotizzato una discesa in campo, la Bindi ha imbracciato il fucile: «Se Renzi vuole correre per le primarie si dimetta dal Pd, perché il candidato per statuto è il segretario». E quando in Senato s’è discusso il caso Tedesco, ha sostenuto che l’ex vicepresidente della Regione Puglia «è un peccatore, perché è un ex socialista», così insultano un’intera tradizione politica certo non peggiore della sua.
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