L'umanità non merita la libertà dal lavoro

Il saggio di Sloterdijk racconta la solitudine dell'io globale e l'avventura dei "piromani" verso l'Intelligenza artificiale

L'umanità non merita la libertà dal lavoro

La rupe più alta è solo un'illusione. Non reggerà al vento e alla tempesta. Non sopravviverà al tempo. Il suo destino è sprofondare nel Tartaro, realtà tenebrosa e sotterranea dove non c'è posto per la speranza. Incatenata a quella roccia c'è una figura troppo inflessibile per essere umana. È un Titano e ha combattuto per Crono contro Zeus, una delle tante scelte sbagliate. È il fratello di Atlante, condannato a tenere il mondo sulle spalle. Si chiama Prometeo e dicono che sia lui il padre degli umani. È lui che gli ha insegnato a raccontare storie. La sua colpa è però un'altra, l'idea troppo precipitosa di regalare ai mortali il segreto del fuoco. Eccolo il peccato, scellerato. Ora sta lì a subire l'aquila che ogni giorno mangia il suo fegato, quello stesso fegato che ogni notte si rigenera per essere di nuovo consumato. Laggiù nel Tartaro ogni azione è senza fine, un circolo che comincia, finisce e ricomincia, come se avesse lo stesso vizio dell'universo. La domanda da lasciare a Prometeo allora è questa: ne valeva la pena?

Peter Sloterdijk parte da qui per evocare quello che ci aspetta. Lo fa con un breve e intenso saggio dal titolo Il rimorso di Prometeo (Marsilio, pagg. 94, euro 15). È un viaggio nell'ultima corsa folle di un'umanità di piromani che gioca con una rivoluzione sociale, culturale e filosofica di cui non si conoscono i confini. È un viaggio a fari spenti nella notte, come in una canzone di Battisti, per vedere se sia poi davvero così difficile morire. «Prometeo non poteva sapere fino a che punto si sarebbero spinte le sfrenate politiche innescate dal genere umano, ciò che era stato pensato come rimedio all'impotenza si trasforma in una forza del male». Non bisogna però confondere Sloterdijk con uno dei tanti millenaristi di questi anni segnati dalla paura. Non si sta viaggiando verso la fine del mondo. È che sta cambiando l'orizzonte degli umani e loro si muovono inseguendo le stesse ossessioni, con una consapevolezza e una coscienza etica costante nei secoli dei secoli. Sloterdijk, con la sua faccia da Obelix, si interroga da una vita su cosa troveremo al tramonto del postmoderno e cosa resterà di reale, di terreno, alla fine della globalizzazione. Ne discuteva già nel 1999 con Regole per il parco umano, una risposta alla Lettera sull'umanismo di Heidegger. È un discorso sulla tecnica che già vedeva l'approdo verso l'intelligenza artificiale. Sloterdijk ha riaperto un orizzonte che per lunghi anni era stato dimenticato. La sua filosofia riprende alcune osservazioni di Oswald Spengler racchiuse in quel saggio del 1931 battezzato come L'uomo e la macchina: contributo a una filosofia della vita. La macchina, per Spengler, è il Dio detronizzato. È un vuoto da riempire. È il figlio che si ribella al padre e prende il posto del nonno. È lo stato d'animo di un uomo che da lontano vede il tramonto. Le macchine ti inseguono da sempre, un tempo immemorabile, come la prima ruota, come ombre proiettate sul futuro, da quando le mani hanno cominciato a contare e sono andate al di là del proprio io, oltre l'umano e al suo servizio, per accorciare il tempo e lo spazio e spartirsi la fatica. È per questo forse che fanno paura, come se prima o poi dovessero prendere il posto di chi le ha costruite. Il fantasma inconscio è che non siamo indispensabili. Non lo siamo mai stati. Si sta qui ma senza sapere perché, come naufraghi. Il sospetto che si possa essere le macchine di qualcun altro è forte. Sogni fragili di un sognatore invisibile, con la tentazione di prenderne il posto, magari per vedere l'effetto che fa. Solo che il passaggio da figli a padre ci spaventa e il terrore è scorgere nello sguardo di un'intelligenza artificiale il nostro stesso destino. Dio è morto e la macchina prima o poi si sbarazzerà dell'umano. È la mancanza di una metafisica che rende il futuro così drammatico. Il timore di stare qui per caso, irrilevanti, senza uno straccio di ragione, con un creatore imperscrutabile che gioca a dadi o a nascondino. La sensazione di apocalisse ineluttabile non ha nulla a che fare con i nostri peccati, ma va a riempire una assenza. L'attesa della fine, che sorprendentemente caratterizza questi primi decenni di terzo millennio, finisce per dare un senso al disorientamento. Se c'è un finale, apocalittico, ci sarà stato anche un inizio, basta tracciare una linea disordinata e il destino è fatto. Basta a questo punto cercare un misfatto e un colpevole, il sole che si spegne, la natura che si vendica, la guerra finale, la volontà di potenza dell'umano.

La macchina in questa avventura non è un personaggio secondario. È l'energia che ha permesso all'uomo di andare oltre se stesso. È il motore del cambiamento. La macchina è compagna di viaggio e superamento della fatica. È un sogno di libertà che però ogni volta resta disilluso. È la macchina che rende conveniente l'abolizione del lavoro schiavistico. È la macchina che libera i contadini dalla servitù della gleba. È la macchina che strappa dalla morte le masse indigenti. Se lo guardi da questo punto di vista il dono di Prometeo non è stato affatto inutile per il destino degli umani. Li ha resi simili agli dèi. La stessa macchina però ha generato alienazione e un nuovo tipo di sfruttamento. Ha permesso all'umano di stuprare in lungo e in largo la madre terra. Lo ha reso virtuale e immaginario. Ora ci stiamo avventurando in un cambio di paradigma più forte dell'aratro, del telaio meccanico, del vapore, dell'elettricità, della fabbrica fordista. È perfino più profondo della fissione nucleare o della grande ragnatela di dati che chiamiamo web. Non si possono prevedere le conseguenze. L'intelligenza artificiale cambia il lavoro, alcuni mestieri li integra, li rinnova, li inventa, altri li sostituisce, li divora e li battezza vecchi e perduti. Non è solo questo. Il capitalismo si trova di fronte a una serie di incognite, perché la variabile salario si fa incerta e per sostenere i consumi c'è chi anche dal lato dei produttori pensa a un modello statalista di reddito di cittadinanza universale. Ci potrebbe essere un salto di lato della tassazione, dall'umano alle macchine. È probabile che ogni individuo avrà molto più tempo libero, sembra un sogno ma potrebbe nascondere un incubo.

Cosa farà l'umano di tutto questo tempo libero? Ci sarà davvero la fine dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo? Karl Marx immaginava un nirvana dove ogni individuo libero dal lavoro avrebbe finalmente coltivato le sue passioni più profonde: dalla pesca alla filosofia. «La possibilità di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia, senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico». Ti chiedi se Marx non sia stato troppo ottimista.

Il rischio è che le masse, spaesate dal tempo libero, finiscano per cercare uno sfogo nelle piazze della politica, proprio come accadeva a Roma nel primo secolo avanti Cristo, quando le bande estremiste di Clodio e di Milone si massacravano nella guerra civile. Prometeo ha regalato agli umani il fuoco, ma si è dimenticato di far evolvere la loro saggezza. È questo il rimpianto del titano.

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