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L'uomo degli scoop ai confini del mondo

Le guerriglie in Africa, i traffici di coca in Colombia, la Cecenia. L'anti-reporter Giorgio Fornoni era lì prima degli altri. Partendo dalla sua baita in Val Seriana

Albert Londres, il padre del giornalismo d’inchiesta che negli anni Dieci e Venti del Novecento viaggiò da un continente all’altro per realizzare reportage sulle prigioni della Cayenna, sulla tratta delle bianche e sui reietti della società, era convinto che il compito del giornalista «non è quello di essere pro o contro qualcosa; ma di girare la penna nella ferita». Londres morì nel 1932 nell’incendio della nave che lo riportava in Francia dalla Cina, dove era andato a indagare sul traffico d’oppio delle triadi cinesi.

Oggi i giornalisti che «girano la penna nella ferita» sono pochi, e quelli che viaggiano nel mondo per raccontare ingiustizie e sofferenze ancora meno. Uno di questi pochissimi si chiama Giorgio Fornoni, giornalista indipendente e inafferrabile, reporter senza limiti più che senza frontiere, inviato anomalo tra le anomalie del mondo, una firma sconosciuta abituata a rivelare, oggi, fatti e personaggi che le grandi testate scopriranno domani. Uno che «per hobby va a scoprire guerre prima che scoppino sui giornali», come lo definì Stefano Lorenzetto in una lunga intervista pubblicata su queste pagine una decina d’anni fa.

Giorgio Fornoni ha poco più di cinquant’anni, vive ad Ardesio, Bergamo, di professione fa il commercialista e per hobby il giornalista. Iniziò, come indipendente, a metà degli anni Settanta, entrando nelle «zone calde» del pianeta grazie ai suoi contatti - lui, seminarista mancato - con le missioni cattoliche sparse per il Terzo mondo. Ha battuto migliaia di chilometri su tutti i mezzi di trasporto inventati dall’uomo, dallo yak al carro armato, «coprendo» colpi di stato, guerre, traffici d’armi e disastri ecologici per fogli di provincia come L’Eco di Bergamo o invisibili come L’Aposto di Maria. Poi sono arrivati Panorama e soprattutto Milena Gabanelli, che nel 2000 l’ha arruolato nel team di Report. E oggi finalmente la casa editrice Chiarelettere ha deciso di raccogliere le inchieste e i reportage Ai confini del mondo (insieme al materiale video, allegato in un dvd) di questo «reporter non comune» che vive sei mesi ad Ardesio - paesino di cui è anche stato sfortunato sindaco per poco più di un anno, dal 2009 all’ottobre scorso - e sei mesi in giro per i cinque continenti a caccia di guerriglie, malaffari e popoli senza patria.
Irregolare, irrequieto, incontentabile. Giorgio Fornoni, capelli incolti e sguardo sottile, ha percorso la Russia e la Siberia, ha battuto quasi per intero il continente africano, l’Asia l’ha attraversata dalla Cina all’Iran, è stato in America latina, Pakistan, Cina e Kazakistan. È stato arrestato da agenti del Kgb che lo hanno scambiato per una spia mentre si aggirava attorno al centro di ricerca sulle armi biologiche più grande al mondo, negli Urali. Si è trovato in mezzo ai bombardamenti fra i taliban e Massud, in Afghanistan. Ha incontrato, rischiando la testa, i signori della guerra e i capiguerriglia dell’Africa: Issa Sesay, nelle miniere del Kono, in Sierra leone, oggi imputato per crimini di guerra dal tribunale speciale dell’Onu; Laurent Nkunda, leader della rivolta nel Nord Kivu, in Congo, indagato dalla Corte penale internazionale; il «generale» Boyloaf, alla testa del Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger che combatte contro le multinazionali del petrolio. Ha percorso la «via della coca» tra Colombia, Perù e Bolivia. Ha indagato sul traffico di coltan, un minerale da cui si estrae il tantalio, sempre più utilizzato in elettronica, dai cellulari all’iPod: preziosissimo, è estratto nel Congo, commercializzato in Ruanda e esportato in tutto l’Occidente, lasciando dietro di sé una scia di dollari, lacrime e sangue. Ha inseguito i predoni di uranio in Cina e i ladri di acqua del fiume Congo. Ha incontrato Anna Politkovskaja nella sede della Novaja Gazeta, nel 2003, facendole raccontare quello stava succedendo in Cecenia. Ha intervistato il Dalai Lama, il premio Nobel per la Pace Rigoberta Menchù, l’intellettuale russo Grigorij Pomeranc, uno degli ultimi sopravissuti ai gulag staliniani. Ha visto con i suoi occhi e la sua telecamera stragi, fosse comuni, esecuzioni sommarie, bombardamenti. A chi, una volta, gli ha chiesto «Come fai a sopportare tanta sofferenza?», ha risposto: «Preferisco affrontarla e trovare momenti di umanità, piuttosto che mettere a tacere la coscienza disinteressandomi di ciò che succede lontano da me».
La sofferenza dell’uomo è la molla che lo fa partire, il dovere di raccontarla agli altri è il motivo che lo fa tornare. Vive in una stalla ristrutturata, in Valle Seriana, poi ha un’altra piccola casa-rifugio isolata fra le montagne. Il posto giusto dove ripensare quello che ha vissuto e dove scrivere quello che ha visto. Ed è anche il posto giusto, ogni volta, da cui ripartire.

Fornoni è convinto che lo scoop più grande che ha fatto è stato raccontare la cosa più banale per l’essere umano: la morte.

Nel suo caso, però, era quella di un condannato all’iniezione letale in un carcere del Texas, dove era entrato per un reportage sulla pena capitale nel mondo. «Ho ancora negli occhi l’ultimo spasmo di quell’uomo». Separato da un vetro, ma anche questa volta in prima linea. Come il vero reporter che gira la penna nella ferita.

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