Controcultura

"Affinità e divergenze fra la Mongolia e noi"

"Affinità e divergenze fra la Mongolia e noi"

A due minuti dal casello di Reggio Emilia, c'è la tavola calda Coccola o insulto annessa a un distributore di benzina. Intorno, campi e capannoni. Potrebbe essere la periferia di qualche città industriale dell'era sovietica. Dentro ci sono musica dance, tavoli di legno, sedie in formica, alcuni volumi di una enciclopedia appoggiati su una piccola libreria. Soprattutto ci sono Massimo Zamboni (Reggio Emilia, 1957) e sua figlia Caterina (Castelnovo ne' Monti, 1998), coautori de La macchia mongolica (Baldini+Castoldi, pagg. 282, euro 18). Il libro torna in nuova edizione e chiude un cerchio. Al diario di viaggio in Mongolia (anzi i diari: 1996 e 2016) del padre segue il diario della figlia, ospite di un monastero mongolo per un mese.

Nel 1996, Zamboni era sbarcato a Ulan Bator assieme a Giovanni Lindo Ferretti, come lui membro del gruppo musicale CSI. Da quel viaggio erano nati l'album Tabula Rasa Elettrificata e il film Sul 45° Parallelo di Davide Ferrario. Nel 2000 arriva In Mongolia in retromarcia (Giunti e poi Nda Press, 2009). Ora è il momento di un nuovo progetto in tre parti. La macchia mongolica è un libro, un disco e un docufilm con la regia di Piergiorgio Casotti. La macchia mongolica è una formazione di natura benigna presente sulla pelle fin dalla nascita. Si manifesta nelle popolazioni con tratti asiatici. Ma Gengis Khan ha conquistato mezzo mondo e quindi la macchia mongolica può apparire anche... a Reggio Emilia.

Massimo Zamboni è autore di altri volumi (ad esempio Nessuna voce dentro, Einaudi 2017) ed è famoso per la sua attività di chitarrista. Le sue band, dai CCCP Fedeli alla Linea ai CSI, hanno scritto la storia della musica rock grazie a inni come Io sto bene, Emilia Paranoica, Forma e sostanza. Zamboni oggi è solista con una discografia eccellente e ricca. L'ultimo disco contiene musica da meditare e da ascoltare con calma. Calma è anche la sensazione che trasmette Zamboni quando inizia, con Caterina, l'intervista.

L'incipit descrive la Mongolia, con le sue pianure sconfinate, come un Paese in cui la modernità non è riuscita ad attecchire del tutto. In questo sbarazzarsi della modernità o incapacità ad adeguarsi c'è qualcosa di positivo? Non si rinuncia così al progresso?

Massimo: «La Mongolia ti impone di fare i conti con tutto questo. La modernità ha cercato di imporsi alla Mongolia e lo ha fatto nel corso dell'ultimo secolo con dominazioni molto diverse, inclusa quella sovietica. Il comunismo ha cercato di portare nelle pianure (...)

(...) mongole il cemento, le grandi centrali, le unità di produzione, trasformando il paesaggio in quella che in un disco dei CSI abbiamo descritto come tabula rasa elettrificata. Tutto questo è crollato, è durato l'arco di qualche decennio. I mongoli sono tornati alle tende di feltro, la vita lontana da tutto, l'autonomia di ogni gruppo, anche famigliare».

Questa però era la Mongolia del 1996.

Massimo: «Oggi metà dei mongoli si sono urbanizzati. Le pianure sono ancora più spopolate di prima ma la modernità è riuscita a inghiottire il cinquanta per cento della popolazione. Questo processo è stato molto rapido».

Anche da noi è successo qualcosa di simile?

Massimo: «Per Pasolini, la velocità della nostra modernizzazione aveva causato una frattura tra campagna e città. Però in fondo noi abbiamo avuto oltre mezzo secolo per adattarci. In Mongolia questo processo è stato rapidissimo, all'incirca 5 anni. Per questo è una modernità fragile. Metà dei mongoli vive ancora nelle tende, segue la tradizione, adotta una economia e un'alimentazione fondate sul ritmo della natura. La tradizione insegna come affrontare qualunque tipo di situazione. Vivere così significa vivere secondo regole millenarie».

C'è qualcosa di eterno nel vivere secondo la tradizione?

Caterina: «C'è una ciclicità che si esprime anche nel vivere quotidiano. Ogni azione, come spezzare gli spaghetti da cuocere assieme alla carne, ripropone un gesto antico. Questa ciclicità è anche imposta dal territorio, così difficile da abitare. È difficile osservare un radicamento simile in Italia. Lì un bambino e un vecchio sanno esattamente cosa fare perché hanno una memoria culturale, un retaggio tradizionale con il quale intrattengono un rapporto immediato».

Massimo: «Ad esempio, quando entri in una tenda, c'è un percorso prestabilito da seguire, un posto preciso per l'uomo, la donna e l'ospite. Ogni movimento è scritto nella tradizione. E ti mette immediatamente in relazione con l'eternità. Chi aderisce a questo percorso, già tracciato da generazioni, è riconoscente verso chi lo ha preceduto. Non c'è imposizione. Ma adesione. L'eternità è la misura dell'uomo riconoscente».

Il rapporto così forte con le radici è qualcosa che qui da noi è stata spazzata via? Tu, Massimo, coltivi sugli appennini, addirittura coltivi cose che non ti conviene coltivare.

Massimo: «Il rapporto con le radici non è un rapporto di convenienza ma di appartenenza. Non c'è da vergognarsi della parola nostalgia. Non è ben accettata dalle nostre parti. Quando dici nostalgico devi sempre trovare una scusante per questa parola. A me piace molto».

Caterina: «Heimweh è una parola tedesca che esprime la nostalgia per la propria casa. Significa apprezzare il valore della tua terra, imparare ad amare le cose tra le quali sei nata, conoscerne il significato, riconoscersi in esse».

Massimo: «Nelle cartoline rappresentiamo sempre la nostalgia verso un paesaggio che non c'è più o sopravvive solo in parte. Chi farebbe mai una cartolina di un benzinaio? La pianura, il paesaggio di un tempo sono dentro di noi, lo riconosciamo subito da un dettaglio. La pianura a perdita d'occhio non esiste più eppure noi la immaginiamo ancora così. Culturalmente siamo ancora lì».

Come ci sente in mezzo al nulla?

Massimo: «La Mongolia ti invita a tornare a un alfabeto originale. Se io dico uomo, noi tre qui seduti non sappiamo bene di cosa stiamo parlando, il concetto è troppo stratificato. C'è un uomo storico, civile, concreto. In Mongolia tu guardi una pianura infinita, ti basta vedere un uomo in lontananza, che cammina, ed ecco che capisci cosa è un uomo, una presenza fisica, concreta, che va al di là della storia. Quell'uomo è il primo uomo che contiene tutti gli altri. Un padre, una madre, un figlio, il fuoco, l'acqua: sono parole che hanno il significato originario, non si è aggiunto nulla di nuovo, perché tutto si ripete e si ripete come se fosse la prima volta».

Avete descritto un percorso eterno nella sua ciclicità. È una eternità senza Dio? Tu, Caterina, hai vissuto per un mese in un monastero buddista.

Caterina: «Dall'esterno, con tutta l'umiltà del caso, si percepisce l'assenza di un dio preciso ma la presenza di qualcosa di divino, che non vuole dire necessariamente di religioso. È una armonia eterna, che non ha bisogno di altro, di una divinità che giustifichi che le cose sono così come sono. Sono le cose stesse che si manifestano in un modo superiore, giusto, perfetto, armonico appunto. Il ripetersi dei gesti contiene in fondo qualcosa di rituale e dunque di religioso».

I simboli della nostra religione sono muti? La modernità porta con sé la fine del cristianesimo?

Caterina: «Muti non credo. Hanno un grande valore ma non hanno la forza di un tempo, non suscitano lo stesso trasporto».

Massimo: «La spiritualità mongola ha qualcosa di indefinito e di sfuggente. Loro sono buddisti o animisti. Quando c'è stata la repressione comunista dei monasteri, l'animismo è sopravvissuto perché non c'era un clero da perseguitare, non c'era nemmeno un luogo sacro. Adesso c'è il ritorno del buddismo. I fedeli sono saliti in montagna a riprendere gli oggetti sacri nascosti agli occhi dei sovietici. Non c'è una religione che impone come a volte il cristianesimo ha ritenuto di dover fare. Intendiamoci, non penso di confinare il cristianesimo a questo, c'è la figura del Cristo sofferente, non è una figura che deve spaventare, contiene molti altri significati».

La Mongolia è la nostra infanzia?

Massimo: «È il mondo delle origini, quello da cui siamo passati anche noi. Noi sentiamo tutto il peso della nostra storia. Anche la Mongolia ha avuto una storia lunghissima. Però non ne vedi le tracce, non ci sono castelli, statue o altro che ricordi dominazioni, imperatori, guerre. Questo ti libera lo sguardo. A proposito di eternità. Quando non si rompe il filo della narrazione nei secoli, tu sei contemporaneo a tutto quello che è accaduto perché vivi allo stesso modo e riconosci come tuo tutto quello che è stato. Noi, se pensiamo al XX secolo, sentiamo una distanza enorme, da quell'Europa, da quell'Italia. Quando tu sei davanti ai monti Altaj, tu sai che tutti gli imperatori della stirpe di Gengis Khan sono stati sepolti lì. I soldati dei cortei funebri uccidevano tutti gli uomini che incontravano affinché l'imperatore fosse servito anche nell'aldilà. I mongoli non solo si ricordano quegli eventi ma li sentono contemporanei, presenti».

Mentre da noi?

Massimo: «Sulle rive del canale Tartaro, vicino a Mantova, i vecchi si ricordano che lì c'era un accampamento degli Unni. Sono passati più di mille anni. Ma evidentemente la storia è entrata in loro, la narrazione non si è mai interrotta. Dubito però che i loro nipoti sappiano dell'accampamento degli Unni». Caterina: «L'uomo contiene tanti uomini. Noi tendiamo a distinguere l'uomo dell'Ottocento, l'uomo del Novecento. Di fatto lì c'è il senso della contemporaneità, che si lega al discorso sull'eternità».

Anche la musica è primordiale?

Massimo: «I loro strumenti sono di derivazione naturale. Legno, crine, poco altro. La loro musica non esprime sensazioni individuali come la nostra. Non esprime protesta o amore. La musica descrive la montagna, la tenda, il fiume. La mamma, ma non solo quella umana, anche la mamma dei cammelli, delle mucche. Qualunque suono apre l'immaginazione. Le nostre canzoni, grazie al potere delle parole, delimitano l'immaginazione. Quando i mongoli cantano, spesso intonano solo una vocale tremolata, all'infinito».

Cosa hai cantato ai mongoli?

Massimo: «Avevo il terrore che mi chiedessero di cantare qualcosa. Loro ti chiedono di cantare qualcosa che racconti la tua terra. Ma quale canzone descrive la mia terra? Emilia paranoica? Il canto delle mondine? Non so esprimere il mio mondo tutto intero. Siamo così confusi che ci manca l'alfabeto chiave di cui parlavano prima».

Tu però sei sempre stato anche uno sperimentatore di suoni dai tempi in cui stavi a Berlino Est. Come si conciliano l'avanguardia e la tradizione?

Massimo: «Si conciliano perché ho trovato lo spazio per tutte le ragioni opposte che ho incontrato. Berlino da una parte, la Mongolia dall'altra e l'Emilia dappertutto sono i miei punti cardinali. L'oscurità e il peso della storia di Berlino trovano contraltare nel senso mongolo del tempo al di là della storia. Ma tutto questo non avrebbe senso se non ci fosse una terra, l'Emilia, dove appoggiare entrambi i piedi. Se così non fosse, queste esperienze farebbero di me una banderuola. Tu vai in quei luoghi per trovare gli occhi per guardare meglio il luogo in cui vivi e che puoi offrire agli altri».

Caterina, tu sei il libro vivente. Che impressione ti ha fatto leggere le pagine in cui Massimo decide che è giunto il momento di diventare padre?

Caterina: «È un modo bello di riconoscersi e di vedersi. Capisco quello che lui ha scritto, c'è una complicità del nostro sguardo sulle cose. C'è sehnsucht: tensione e bramosia per lo scoprire cose nuove. C'è anche heimweh: volontà di ritorno e di capire cosa mi caratterizza. Affrontare questo tema attraverso le parole di mio padre è stato importante».

Nel libro ci sono anche concetti come dono e compassione. Sono possibili in un mondo basato sul mercato?

Massimo: «Sono un privilegiato e questo già fa parte del dono. Scrivere, suonare, coltivare la terra mi dà una infinita libertà di scelta. Posso dare sfogo al mio talento, qualunque quantità io ne abbia. È un dono, e credo sia giusto restituirlo. L'uso della prima persona nei miei libri non è una postura narcisistica. Significa che metto a disposizione tutto ciò che ho, cioè me stesso. È l'unica cosa che posso fare, offrirmi. Offrire i miei pensieri, sperare che siano utili agli altri. Se noi vivessimo in una società solamente tronfia, appagata e superficiale allora ci sarebbe da mostrarne il marciume. Io credo che il nostro mondo sia diverso. All'apparenza è tronfio e appagato. Nella realtà è fragile e spaventato, molto timoroso del futuro. Ci vogliono compassione, benevolenza e voglia di aiutarci a vicenda. Per questo mi sforzo di usare parole che siano un abbraccio. Non ci sono io e poi ci siete voi contro cui protestare. Siamo noi. C'è bisogno di capire le sostanziali affinità. Le divergenze sono tante, le abbiamo già esplorate. Però l'uomo è uno».

Un altro tema forte è l'identità. Caterina è nata con la macchia mongolica, un tratto genetico che indica la presenza di sangue mongolo nelle sue vene.

Massimo: «Io potrei dire: sono emiliano da generazioni. Davvero? Mia figlia è nata con la macchia mongolica. Quando i mongoli hanno messo una goccia di sangue nel sangue emiliano dei miei avi o di quelli di Daniela, la madre di Caterina? Non lo so. Nel Trecento, uno schiavo portato dagli imperatori romani? Un soldato di Gengis Khan? Un soldato della Seconda guerra mondiale? L'identità è fonte di odio. Andrebbe ripensata. La scommessa della Macchia mongolica è questa: la bambina appena nata, una bambina normale, è portatrice di una idea molto forte: le differenze non sono invalicabili. Non dovremmo basare le decisioni nella vita pubblica, ma anche il modo in cui parliamo, esclusivamente su ciò che divide».

Caterina: «L'identità è un ricomprendere tutto assieme. Dire che c'è una parte del mio sangue che non è emiliano, non significa negare una cosa per affermarne un'altra».

Voi scrivete che il nemico che ci opprime è dentro di noi.

Massimo: «Passiamo parte della nostra vita ad assomigliare a noi stessi. La ribellione alla mia educazione è stata prolungata e prolifica. Un po' alla volta mi avvicino alla mia vera voce. Prima o poi ci arriverò. Non è più come a 18 anni. Il nemico non è più la società, la rivoluzione non è l'obiettivo. Alla fine scopri che il nemico non è esterno, sono le scorie che hai dentro e di cui ti devi sbarazzare per raggiungere... te stesso.

Siamo sempre lì: all'alfabeto primordiale».

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