Controstorie

Macerie e divieto di scalata la «porta» dell'Himalaya rimane (ancora) chiusa

Il terremoto ha messo in ginocchio il Paese, ma i turisti iniziano a tornare e la Cina fa investimenti

Lucia Galli

da Katmandu

«O ggi è festa: c'è meno traffico e attraversare la strada non sarà un problema, ma non farci l'abitudine». Prima regola da imparare: Katmandu è la porta dell'Himalaya, ma il fiato te lo toglie non per la quota dei suoi modesti 1400 metri, ma per lo smog e il suo guazzabuglio urbano degno di una vera metropoli asiatica. Ha voglia di scherzare Sunil ma lui, lo scorso dicembre, a votare ci è andato a piedi e ha impiegato ore: «Sempre poco se penso che era da anni che aspettavamo le elezioni». Già, dal 1996 a oggi fanno 11 anni di guerra civile, poi la caduta della monarchia, nel 2008, con un bilancio di almeno 17mila morti, quindi altri sette anni per avere una Costituzione, arrivata, infine, poco dopo il devastante terremoto che, nel 2015, ha rimesso, con oltre 9mila vittime, in ginocchio il paese per altri due anni. «Tutto si è fermato ricorda Sunil -: solo Pashupatinath fatturava», dice col sorriso sbieco riferendosi al tempio dove si vanno a bruciare i propri morti prima di lasciar correre le loro ceneri nel Bagmati, il fiume sacro. Poi, nel 2017, le prime elezioni. Libere, il più possibile. Il Nepal ci ha messo un po', ma ha appena scelto di affidarsi ad una coalizione comunistamaoista, guidata da Khadga Prasad Sharma Oli che ha conquistato i due terzi dei seggi, lasciando le briciole al partito del Congresso, travolto, in questo «primo decennio di prove tecniche di democrazia», da corruzione e immobilismo.

Ora non c'è da aspettarsi che la bandiera cinese sventoli anche sul versante nepalese dell'Everest, ma certamente la volontà è quella di provare a contare un po' di più: «Siamo un mini paese che due tigri come India e Cina hanno sempre tirato per la giacca», sintetizza nel suo italiano a cantilena Bimal Thapa, alla guida di un piccolo bureau per spedizioni d'alta quota. La Cina si affaccia dagli ottomila metri dei monti e guarda giù al Nepal come a un ponte. L'India, al contrario, guarda in su, con golosità, a questi altipiani turgidi di vegetazione e carichi di pioggia, ma poi è anche capace di chiudere confini e frontiere, con periodico ma inesorabile capriccio, voltando le spalle ai suoi cugini in Dharma: «Anche quando dopo il sisma precisa Thapa - da lì sarebbero potuti arrivare più rapidi gli aiuti». Intanto si ricostruisce come si può. Nel mezzo di Durbar Square a portata d'occhio c'è tutto quello che serve per immaginare il grande passato di questa regno: il palazzo reale con il suo mix di candido neoclassico bianco e antiche pagode in legno ti ricorda che proprio li si è consumata una delle tragedie più cruente della storia del Nepal, quando era il 2001 - il principe ereditario Dipendra sterminò 10 parenti della famiglia reale, dando il via all'inizio della fine. Alle spalle intanto è cresciuta un po' sgraziata via Jochne, la freak street dove arrivavano tutti dall'Occidente per perdersi nella saggezza e nell'hashish free dell'Oriente. Lo cantava negli anni'70 Bob Seger, I think I'm going to Kathmandu e il proposito sapeva già di libertà. Merce che in realtà per gli abitanti di qui è stata davvero rara se si pensa che la loro principale dea è una bimba che ne è totalmente priva. Si chiama Kumari Devi e il suo palazzo è proprio opposto alla piazza. Esce una volta l'anno su una carrozza gialla. Vive riverita e truccata con un grande, terzo occhio sulla fronte, si mostra per pochi minuti al giorno e dalle sue smorfie si divina non solo la giornata, ma come andrà una vita intera. In realtà cresce piuttosto ignorante, lontana dagli affetti veri, e alla comparsa della pubertà viene frettolosamente pensionata con un indennizzo economico che non le vale come dote, dato che spesso le kumari restano zitelle a vita e pure emarginate. Così è accaduto anche a Rashmila Shakya che, raggiunti i 30 anni è riuscita a raccontare nel libro Da dea a mortale la sua storia di bimba prestata all'Induismo. Ma la sua testimonianza non ha ancora interrotto questa tradizione ancestrale. Quando le cornici del tempio Maju Deval cominciarono a cadere, nel terremoto del 2015, l'attuale Kumari Devi è fuggita in braccio agli uomini dell'entourage: i suoi piedi nudi e dipinti non possono toccare il suolo. Così vuole la legge indù. Qui i turisti sono già tornati come a Bodhnath dove la grande stupa deve ancora tornare bianca come un tempo, ma le boutique di chincaglieria hanno riaperto e i commercianti hanno ripreso a far sfilare pashmine multicolore attraverso gli anelli, a garanzia della loro raffinatezza.

Eppure questo equilibrio è più fragile della sabbia di un mandala: nelle due città gemelle e satelliti di Kath, Bhaktapur e Patan, le macerie sono oltre che nel cuore, ancora nelle piazze. Molti templi sono impalcati: «Il giorno del terremoto furono i vasai nel quartiere dove ancora si usa il tornio a mano a sentire che tutto tremava troppo». E allora ti chiedi se davvero la filosofia di Siddharta, anche lui nepalese doc, possa lenire un poco questa fatica di vivere e pensi a tutta la bellezza che in questo minuscolo paese deve essere ancora rispolverata da tanto dolore. Pokhara e la sua porta per l'Annapurna, il parco di Chitwan con le sue tigri, gli elefanti e pure i camosci. E poi c'è Lukla, l'anticamera dell'«orrore» per quel volo obbligato ad atterrare in uno degli aeroporti più rischiosi della terra, ma poi grande viatico di meraviglie verso il K2 e Sagarmatha, l'Everest con voce nepalese. «I monti sono da sempre la nostra ricchezza», spiega un portatore. Ma una nuova legge da quest'anno impedirà alle spedizioni solitarie o quelle più sui generis, dei record più mediatici ma meno alpinistici, di far base sul versante nepalese. «Meno business, saliranno tutti dal Tibet e dalla Cina dove al campo base si arriva in bus». Lui se ne sta fermo al crocicchio di Asan Tole, uno dei più trafficati del quartiere di Thamel: solo qui sembra che il terremoto non abbia potuto distruggere ciò che l'uomo non aveva quasi nemmeno costruito.

Poco oltre, in Tridevi marg, un gruppo di biondissime anglofone svicola dietro a un muro. Seguendole il tempo si ferma: vanno al parco. Lo chiamano «il giardino dei sogni». Fanno yoga nel verde e nella pace di una residenza coloniale neoclassica dove si serve ancora il tè in alta uniforme. Sembra un'astronave calata qui fuori da ogni dimensione. Un attimo e siamo di nuovo in mezzo al caos, alla vita. «La tua scarpa si scolla: io te l'aggiusto, signora», ci tira la mano un bimbo. Ma come? Pensavamo che questo per le nostre gloriose trainers sarebbe stato l'ultimo viaggio e, invece, c'è qualcuno che in loro vede un futuro. Potere della reincarnazione e, perché no, di quella cultura che ci ha spiegato e cantato che qui e solo qui, a Kath, tutto può succedere e rinascere più forte del tempo. «Kathmandu, I'll soon be seeing you». Cat Steven e quegli anni '70 avevano ragione.

È tempo di provare ancora ad attraversare la strada.

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