
La giustizia italiana è lenta anche di comprendonio. Perché è vero, tante riforme in passato nascevano col destino già segnato, si annunciavano, dibattevano, glorificavano, e poi, come un articolo sul caldo, evaporavano. Tra queste riforme, la separazione delle carriere rischiava pur essa di allungare il repertorio: sempre evocata, mai fatta. Ecco perché non stupisce che gran parte della magistratura – correnti incluse, Anm in testa – l’avesse forse presa per la solita fanfara da convegno, un’esercitazione da Guardasigilli di passaggio: perché poi, si pensava, si sarebbe arenata come di consueto.
File chiuso. Sipario. E invece no.
Sveglia: lo stanno facendo davvero.
L’articolo 2 della riforma è passato in Senato: il cuore del disegno costituzionale – due carriere distinte, due Csm – ha fatto un passo decisivo e, se è vero che la Storia è fatta di piccoli passi, be’, questo è un passo.
Ma è come se la Magistratura «ufficiale» ultimamente si fosse accorta all’unisono che la riforma è reale, vera, viva, e – orrore – incalzante. Infatti il tono della corporazione era un perché il Guardasigilli non era in aula, pochissimo altro.
Non dicano che mancavano i segnali. Carlo Nordio l’aveva detto cento volte che «la magistratura non è indipendente da se stessa, è ostaggio delle correnti».
Eccetera. Era gennaio, non era accademia da convegno, non lo era mai, ma non lo prendevano sul serio: l’Anm aveva liquidato tutto come un attacco «inemendabile» allo stato di diritto, proprio così, «inemendabile», tanto per farsi capire dalle masse. La verità è che pensavano che la riforma si sarebbe sgonfiata da sola, magari impaludata tra questo e quello, sabotata dalle tensioni di maggioranza, dissolta nel vociare dei talk-show. Invece tu guarda: puntuale, ordinata, impassibile come un notaio in corsia preferenziale.
Hai voglia, ora, agitarsi, protestare, alzare la voce: fa pure caldo. Ecco, parlando di tempo: è finito quello del condizionale è si è passati all’indicativo presente: la riforma si fa, non è che si farà. Si fa.
Insomma non era un seminario, non era un’amichevole, era una partita vera, lo resta. E aveva e mantiene tutte le ragioni, Carlo Nordio, per restarsene lì chirurgico, impassibile, oseremmo dire soddisfatto.
Non serve neppure la solita metafora della partita: la storia degli ultimi 35 anni è sufficiente. Già la sapete, già li conoscete i vari sondaggi (noi citiamo Demos) secondo i quali, a metà degli anni ’90, oltre il 70 per cento degli italiani aveva ancora «molta» o «abbastanza» fiducia nella magistratura; ma oggi quella quota, abbassatasi sino al 7 per cento nei momenti peggiori, è stabilmente tra il 30 e il 40.
Troppi scandali, troppe derive correntizie, troppe porte girevoli con la politica, troppa impressione (quasi nazionalpopolare) che ormai in Italia di vera casta ne fosse rimasta ormai una sola, irriformata dal Dopoguerra.
Senza contare il paradosso storico: le stesse forze politiche che oggi
guidano la riforma – da Fratelli d’Italia alla Lega – sono le eredi dirette di quelle che negli anni di Mani Pulite tifavano magistratura sin troppo sguaiatamente. Allora erano all’angolo, oggi sono al centro. È andata così.