Sipario sul "duro e puro" tritato nel folle meccanismo di questa (sua) giustizia

L’ex pm è l’ultimo dei giustizialisti del Pool. Tra le sue frasi famose: "Per i politici che delinquono non serve il giudizio definitivo"

Sipario sul "duro e puro" tritato nel folle meccanismo di questa (sua) giustizia

Tocca iniziare con un virgolettato: «Bisogna abolire il divieto di reformatio in peius in Appello. Se ti condannano e tu appelli, può toccarti una pena più alta. In Italia non si può». Parole di Piercamillo Davigo all'amico Marco Travaglio il data 9 gennaio 2020, ovviamente sul Fatto Quotidiano: e meno male. Nel senso: meno male che in Appello la «reformatio in peius» non c'è, altrimenti chissà mai, su Davigo poteva anche cadere una pena più alta, e sarebbe stato davvero troppo: qui ci vorrebbe una «faccina» (emoticon) per far capire che lo diciamo sinceramente. Davigo non ha preso una pena più alta: ha preso una pena uguale, un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d'ufficio, ma questo non è successo per via della sua solita frase che gli attribuiscono sino alla nausea, ossia che «non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti» (dovevamo citarla, è un mestiere ingrato) ma è successo, bensì, per un fatto, come dire, statistico: più che un tritacarne, la giustizia italiana è un folle e gigantesco mulino in cui prima poi ci si infarina tutti.

Ma a Davigo va concesso l'onore delle armi anche perché a reggere lo scettro del duro e puro resiste o resisteva giusto lui, con Antonio Di Pietro che si è leggermente sputtanato e fa il contadino trattorista, con Gerardo D'Ambrosio che è diventato senatore di sinistra e poi è morto, con Francesco Saverio Borrelli che è morto anche lui pronunciando frasi inquietanti (disse che Mani pulite era stata un errore) mentre Gherardo Colombo è andato in pensione dopo una parentesi in Rai da rassegnato educatore civico, scrivendo peraltro cose anche intelligenti che però si scrivono solo da vecchi. Davigo mica è morto, anzi, ha detto che ricorrerà in Cassazione (tutto è possibile) ma insomma suvvia, è un pensionato, è calato il sipario, non lo ricorderemo certo come uno che comunicava notizie riservate a un parlamentare dei Cinque Stelle in un sottoscala del Csm, né come uno che ignorasse o violasse procedure, o come uno che dice di aver consegnato qualcosa a qualcuno, per esempio al vicepresidente del Csm David Ermini - col vicepresidente Ermini poi a smentire tutto.

Il problema è che di Davigo si sa pochissimo: non lo ricorderemo neppure come un ragazzino cresciuto da una zia, nella Lomellina pavese, che si chiamava Benita, e che è stata indicata come «rigida e autoritaria». Ci sarebbero infiniti aneddoti da ricordare, infinite sue frasi impietose (altre frasi impietose) per ricordarlo, ma ce ne facciamo bastare un'altra ancora, questa: «I politici che delinquono vanno mandati a casa senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». Davigo è già a casa, coerentemente: ma da magistrato pensionato. E resta una persona tutt'altro che stupida e che va considerata un cittadino che merita ogni tutela e tutta la pietà che spesso lui è sembrato non avere.

Tutto gira. Il segreto d'ufficio o istruttorio per cui è stato condannato, sin dal 19 dicembre 1992, Davigo disse che non esisteva più. Lo teorizzava per il compiacimento dei cronisti. Tutto gira. Il giudice che l'aveva condannato in primo grado, ora confermato in Appello, è lo stesso inflessibile Roberto Spanó che più di 25 anni fa sentenziò il «non luogo a procedere» per la maggior parte dei processi bresciani contro Di Pietro: un garantista al cubo. Tutto gira. Nell'ultimo libro di Davigo pubblicato nel tardo novembre 2021 (bello, non il solito libraccio da toga superstar) in quarta di copertina si leggeva che l'autore tracciava «un bilancio decisamente amaro» che molti tradussero in «amara», Piero Amara, il faccendiere i cui verbali Davigo avrebbe illecitamente divulgato: da qui la condanna; chi ha letto il libro potrebbe ricordare pagina 198: «Non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento, certo che emergerà l'infondatezza dell'accusa». Tutto gira. Nella nemesi storica di Davigo c'è sempre una segretaria di mezzo: a pagina 197 del libro si legge che «secondo notizie di stampa la mia ex assistente di segreteria sarebbe stata l'autrice della divulgazione» dei verbali di Amara al Fatto Quotidiano, giornale sul quale Davigo scrive abitualmente; così pure, il 21 novembre 1994, quando l'allora premier Silvio Berlusconi stava per ricevere un celebre «invito a comparire», l'iscrizione nel registro delle notizie di reato avvenne dal computer di Davigo che era accessibile a pochi, tra i quali la sua bionda segretaria, che in seguito fu calunniata da chi raccontò che era stata proprio lei a passare la notizia a un giornalista del Corriere che aveva in simpatia.

Il mondo, e la violazione del segreto, girano sempre attorno a una cosa sola: la figura della segretaria. Ma basta con gli aneddoti. Tutto gira anche a Davigo, dopo un po'. Non sarà una sentenza d'Appello a fermarlo: ora scrive e noi lo leggeremo. Sempre.

Nel giugno 2021 criticò le proposte della Commissione Lattanzi (detta Commissione Cartabia) dicendo che in Italia le pene sono troppo basse, questo a dispetto di massimi edittali che sarebbero anche elevati: colpa soprattutto delle «attenuanti generiche» introdotte dopo il fascismo, disse lui, usate per «attestare le pene verso i minimi». Oddio: è proprio grazie alle attenuanti generiche se ora Davigo ha preso un anno e tre mesi, altrimenti finiva peggio, anzi, peius.

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