Milano - «Gli indici di congruità sono un’ingerenza dello Stato senza precedenti nell’economia: nemmeno nell’Urss degli anni ’70 si è mai preteso di stabilire quanti dipendenti dovesse avere un’azienda. Cioè quello che il ministro Cesare Damiano vuole imporre alle imprese italiane: ma noi non vogliamo neppure sentirne parlare. E per questo ci siamo alzati e ce ne siamo andati, abbandonando la riunione». Battagliero come sempre, Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato, si oppone risolutamente al provvedimento di cui il governo ha annunciato l’imminente applicazione.
Siete stati consultati prima dell’incontro di ieri?
«A noi risultava solamente l’intenzione di contrastare il lavoro sommerso, contenuta nella Finanziaria 2007. L’idea del ministro, cioè gli indici di congruità, ci è stata esposta ieri a voce, da parte di un sottosegretario: e solo dopo ci hanno chiesto di collaborare a costruire questi indici. Ma noi non lo faremo, e non intendiamo firmare nessun avviso comune a questo scopo. Perché questo provvedimento è inattuabile».
Per quali ragioni?
«Perché è stata trasposta la logica pensata per uno strumento fiscale, gli studi di settore, nel mercato del lavoro, che funziona con dinamiche completamente diverse. Non è possibile, infatti, elaborare coefficienti matematici con cui stabilire inderogabilmente quanti lavoratori siano necessari a un’impresa per ottenere un determinato risultato. Un’azienda orafa, per fare un esempio, può realizzare fatturati elevati con un numero di dipendenti relativamente basso, al contrario di un’impresa tessile, che ha bisogno di un numero maggiore di addetti».
Ma è previsto un limite dimensionale per l’applicazione del provvedimento?
«In teoria, no: ma dal momento che il 95% delle imprese italiane è al di sotto dei dieci dipendenti, è chiaro dove si va a colpire. Le belle parole del governo sull’aiuto alla piccola impresa, dunque, rimangono tali: perché i fatti vanno in ben altra direzione. Eppoi, non bisogna dimenticare le differenze geografiche: fare impresa in Val d’Aosta non è lo stesso che farla in Calabria. Ecco perché è impossibile realizzare un coefficiente equo per tutta Italia e anche per tutti i settori: come farvi rientrare, a esempio, le aziende di servizi? Eppure, sono una fetta crescente dell’imprenditoria italiana».
La fase sperimentale, però, dovrebbe riguardare solamente l’edilizia...
«Sì, con la spada di Damocle dell’esclusione dalle gare di appalto per chi non dovesse risultare congruo a questi indicatori astratti: una minaccia grave, come quella di perdere i benefici contributivi».
Ma è anche difficile contestare la necessità di combattere il lavoro sommerso, come vuole il governo.
«E chi vuole contestarla? Noi siamo per la lotta dura al lavoro nero, ma con gli strumenti adeguati: controlli e sanzioni, con la certezza delle pene, non le armi spuntate della burocrazia, che oltretutto finiscono per aumentare i costi delle imprese».
Per quali ragioni?
«È un’esperienza che abbiamo già fatto con gli studi di settore: indici a cui adeguarsi, tabelle da riempire, con relative perdite di tempo, e quindi di denaro, per il contribuente. Fisco più equo: questo il patto che abbiamo stipulato con il ministro Bersani e il viceministro Visco. Insieme a Cna, Confcommercio e Confesercenti».
Con il ministro Damiano, invece, avete problemi e non da oggi...
«Sì: ma siamo anche riusciti qualche volta a fargli cambiare idea. Come nel caso dell’apprendistato, dove voleva imporre i contributi, rischiando di chiudere una delle più importanti vie per l’accesso al lavoro dei giovani, oltretutto con una formazione insostituibile. Non a caso, il 93% dei nostri apprendisti alla fine viene assunto a tempo indeterminato. Speriamo che il ministro faccia marcia indietro anche questa volta».
E se non dovesse accadere?
«Noi non cambiamo idea: questo provvedimento è da buttare nel cestino.
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