Tra le ventimila pizzerie italiane che sfornano giornalmente un milione di pizze, si sta giocando al ribasso con il largo impiego di sottoprodotti. Lallarme è delle associazioni di categoria che denunciano il rischio della perdita d'identità di un piatto amatissimo (4.8 kg il consumo di pizza pro capite annuo), ricco di storia (la «marinara» nasce a Napoli nel 1734), scelto addirittura come emblema dell'agroalimentare italiano alle recenti Olimpiadi di Atene. La nuova emergenza si chiama qualità. «Quando c'è crisi molti aprono una pizzeria - lamenta Umberto Bachetti ideatore del sito pizza.it, il più importante portale al mondo sull'argomento - poi gli chiedi del "w" delle farine (l'indicatore che ne misura la forza, ndr), e non sanno cos'è».
Altro che San Marzano Dop o pomodorini «a piennolo» del Vesuvio lasciati asciugare in direzione dei venti di mare per arricchirli di salsedine. «L'Italia è invasa da pomodori cinesi - lamenta Stefano Auricchio coordinatore dell'associazione Verace pizza napoletana e direttore commerciale di Pizzafest, decennale manifestazione partenopea a sostegno della pizza e della napoletanità -. Al Nord, poi, è sempre più frequente l'impiego di basi surgelate, pelati in buste di tetrapak, già passati e molto liquidi, sughi pronti da utilizzare per tutti i gusti, ai quattro formaggi, ai funghi. Certo, così si semplifica la vita del pizzaiolo, ma il risultato sono piatti colorati senza sapore». Emerge allora che addirittura il 90 per cento dei pizzaioli ricorrerebbe ormai al formaggio fuso al posto della tradizionale mozzarella o del fiordilatte. «Un'abitudine settentrionale - precisa Stefano Auricchio -: nulla da demonizzare, ma quando si usano formaggi industriali a cubetti, il prodotto non è più artigianale». E nel cahier de doleances rientrano anche l'olio, sempre più di semi, il ricorso a mozzarelle miste spacciate come di vera bufala, il lievito.
Eppure anche al Nord c'è chi non accetta questo gioco al ribasso. È il caso di Antonio Tosato, titolare e «artigiano» (così si definisce) della pizzeria Rita e Antonio di Milano. «La verità è che i pizzaioli non vogliono spendere. La mozzarella vaccina costa cinque euro e venti al chilo, il formaggio fuso solo due o tre euro; usano un concentrato di pomodoro per dare magari un colore più rosso, io invece pago «una cifra» il San Marzano. E poi mancano i maestri: anche a Napoli ne sono rimasti solo due o tre». Tra questi c'è sicuramente Luigi Condurro, oggi ottantenne, «mito» della pizzeria Da Michele di Napoli, nel popolare quartiere Forcella, dove la gestione familiare continua da più di un secolo. «La qualità è importante: noi, per esempio, utilizziamo per il forno solo legna di faggio, che dà un sapore particolare. Ma contano anche i segreti del mestiere, la lievitazione, l'uso del sale a seconda dell'umidità. È inutile però aggiungere troppi ingredienti: qui si mangia solo la margherita e la marinara, ma ogni giorno centinaia di persone fanno la fila per entrare».
Grazie alla battaglia ventennale delle associazioni di riferimento e all'impegno del ministro delle Politiche Agricole Giovanni Alemanno, con il nuovo anno le cose potrebbero però cambiare radicalmente. È in dirittura d'arrivo, infatti, l'approvazione definitiva da Bruxelles della certificazione europea del marchio Stg (Specialità tradizionale garantita) riservata alla pizza tradizionale. Questo vuol dire che indistintamente, da Bolzano a Palermo, si potrà produrre la vera pizza napoletana, semplicemente rispettando un disciplinare (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 maggio 2004 e online sul sito www.pizza.it). «Contiamo di avere un'adesione massiccia - sostiene Rosario Lopa, presidente del comitato ministeriale per la tutela e la promozione della pizza Stg -.
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