Mesi prima il settimanale Digame aveva intervistato un po’ di gente dello spettacolo sulle corride. «A mìmegusta el toreo de Manolete» aveva risposto Lupe. «Yo me vuelvo loca quando torea», divento pazza. A forza di applaudire, una volta aveva persino rotto il suo orologio da polso, e un’altra, per strada, in mezzo alla gente, gli aveva gridato: «Eres lo màs grande del mundo». Lui aveva ringraziato, serio e attento: «Pero sin sonreir», senza sorridere. «Ah!, si Manolete sonriera» aveva chiuso Lupe la sua intervista, se Manolete sorridesse... Adesso erano uno di fronte all’altra. «Le pongo hielo, guapa ?» chiese lui, galante, mentre le versava del whisky dalla bottiglia che Perito Chicote, il proprietario del bar, aveva fatto portare al tavolo, lo vuole con ghiacco, bellissima?... Glielo disse con un sorriso.
A sessant’anni dalla scomparsa, il 29 agosto del 1947, nell’Hospital de los Marqueses di Linares, i fans di Manolete continuano a pensare che fu quella sera al Chicote di Madrid l’inizio della fine. Nella biografia di Juan Soto Viñolo, appena uscita in Spagna per l’occasione (Manolete. La vida y los amores de un torero de leyenda, La Esfera de los Libros editore), Lupe Sino, in fondo, è ancora «la Serpiente», la donna facile, dai costumi facili, che conosce la vita, che forse ha fatto la vita, e che facendogli amare la vita lo consegna di fatto alla morte. Nemmeno quelle voci che, ai tempi del franchismo, lavorarono per la sua ulteriore denigrazione, un passato di «rossa», un marito «traditore repubblicano », riescono a trasformarsi, mezzo secolo dopo, nella Spagna socialista di Zapatero, in riconosciuti quarti di nobiltà. L’uscita ora, nelle sale cinematografiche, di Manolete, il film di Menno Meyjes in cui Adrien Brody è il torero e Penelope Cruz la sua donna, non si discosta dal cliché: «amante pericolosa», femmina esperta e calcolatrice...
Film e libro escono più o meno in contemporanea in Spagna con il rientro nella Plaza Monumental di Barcellona di José Tomas, espressione del più drammatico e perfetto torero degli anni Novanta, il cui addio alle corride, cinque anni fa, a Murcia, aveva lasciato vedovi aficionados ed esperti del settore. Il suo ritorno ha provocato il tutto esaurito nella prima esibizione e rinfocolato le polemiche che vedono contrapposti animalisti e difensori della tradizione. Già nel 2004 Barcellona si era proclamata «città antitaurina» e altri 38 municipi della Catalogna in seguito hanno fatto lo stesso. Il rifiuto ambientalista verso quella che è considerata un’orribile e inutile mattanza, si intreccia con quello indipendentista che la vede come un odioso simbolo nazionale, e c’è persino un progetto comunale per trasformare la Plaza Monumental in centro commerciale... Per tutta risposta da Madrid un gruppodi intellettuali, fra cui Mario Vargas Llosa, Fernando Savater, Carlos Fuentes, Arturo Perez- Reverte, ha lanciato un appello chiedendo all’Unesco di riconoscere la corrida come «patrimonio culturale immateriale»...
Nella Spagna post-bellica Manolete incarnò la tragedia: tragico, gotico, anche nell’aspetto, braccia smisurate, spalle strette da tisico, avrebbe potuto essere un modello per el Greco, lungo, solenne, funereo. El Monstruo, lo soprannominò un critico dell’epoca: per la bravura, per la figura. Mancino, la mano più difficile per un torero, riceveva gli applausi come fossero un atto di rispetto. Le immagini d’epoca lo immortalano così, un mododi toreare verticale, l’altezza e la verticalità delle grandi cattedrali, la compostezza assoluta, l’idea di stare eseguendo una sacra rappresentazione, la comunione della vita e della morte, la celebrazione di un rito pagano per la mano di un sacerdote cristiano. Eseguiva le sue figure «mirando al tendido», ovvero guardando il pubblico, come se il toro fosse al suo comando... L’aver calcato l’arena negli anni della guerra ne circoscrisse la fama, e la tempo stesso la innalzò.
Un Paese appena uscito da una carneficina intestina cercò in quella figura l’unità che ricomponesse il passato e cementasse il presente, testimonianza di un’unicità e della volontà di sopravvivenza nonostante tutto, contrariamente a tutto. La Spagna rossa e nera, olio d’oliva e occhi lucidi, visi scarni e ventri piatti, vinto tinto e coltelli affilati, paesaggi desolati e patii lussureggianti, memoria e tristezza della memoria. Solo due Paesi hanno dato al mondo delle tipologie umane esemplari, l’Inghilterra con il gentleman e la Spagna con il caballero: Manolete era un caballero. Alla fine del 1944, Abel Gance, il mitico regista francese di Napoléon, pensò di fare un film su di lui, scrisse la sceneggiatura, affidò i dialoghi a Eduardo Marquina, le musiche a Joaquin Turina. Era una biografia senza sangue e senza arena, il volto del torero sullo sfondo, le sue memorie di ragazzo e poi di uomo. Girato in tre mesi, ciò che ne resta è appena un quarto d’ora di pellicola, con un primo piano, la macchina da presa focalizzata sugli occhi, un gioco espressionista di luci e di ombre...
La «temporada», la stagione di quell’anno, era stata per Manolete trionfale, era dal primo Novecento di Joselito e di Belmonte che non si vedeva un entusiasmo simile. L’anno dopo sarà la volta del Messico e dell’America latina, trionfo ripetuto e rientro in una Spagna in cui l’astro nascente del ventenne Dominguìn dava alla corrida di Linares del 28 agosto 1947, dove entrambi avrebbero toreato davanti a tori di razza Miura, la più pericolosa, il sapore di una sfida fra antico e moderno. Il primo torero ucciso da un Miura chiamato Jocinero era stato a metà Ottocento José Rodrìguez «Pepete», fratello del nonno di Manolete.
Vent’anni dopo era toccato a Manuel Garcìa «Espartero» essere incornato a morte dal toro Miura Perdigòn, e nel Novecento c’era stato ancora spazio per un altro torero, per due novilleros, per due banderilleros, dando alla «ganaderia» Mura una fama sinistra. È probabile che all’appuntamento di Linares Manolete sia arrivato svuotato. Era l’idolo di un pubblico esigente e contraddittorio che gli chiedeva ogni volta sempre di più: più rischio, più emozioni, più sorprese. I partigiani di Dominguìn gli facevano il tifo contro, sua madre e il suo impresario lo incitavano ad abbandonare Lupe Sino, Lupe lo incitava ad abbandonare le corride e a sposarla, in Messico aveva toccato con mano il lusso vero, non quello di una Spagna povera, arretrata e ammaccata: aveva preso un po’ troppo a bere, a fare tardi, aveva preso un po’ troppo a vivere... Quel pomeriggio, nel suo traje del luz rosa e oro toreò però come non aveva mai fatto, il pubblico in delirio, le figure che si susseguviano maestose le manoletinas (la muleta tenuta da due mani, di cui una posta dietro la schiena) eleganti, le corna del Miura Islero toccate per scherno con la mano... Poi, mentre la spada affondava per il volapiè finale, la punta destra di Islero gli trappassò la vena safena... A Cordoba, nel cimitero de la Salud, la tomba di Manolete in marmo bianco, risplende al tramonto. «Un toro de Miura ha matado a Manolete» urlavano gli strilloni per le strade e piangendo ci fu chi cantò per l’ultima volta l’inno che portava il suo nome. «Manolete, Manolete, en la tierra de los Califas gran torero,/ lleva sangre de valiente/ e por eso te aplaude el mundo intero».... Aveva trent’anni e non era mai stato giovane.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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