Mantegna fa rinascere Roma sulla vetta delle Dolomiti

In mezzo alle montagne, ci sono sempre colonne e monumenti antichi in una sintesi architettonica inedita. Come l'Umanesimo

Mantegna fa rinascere Roma sulla vetta delle Dolomiti

A Padova lavora uno dei grandi maestri del Rinascimento, il fondatore di una grande scuola alla quale tutti accorrono per capire cosa sta accadendo nella pittura moderna, Andrea Mantegna, nato a Isola di Carturo (ora Isola Mantegna, a Piazzola sul Brenta) nel 1431, e morto a Mantova nel 1506.

Nell'Orazione nell'orto, del 1460 circa, tavola custodita alla National Gallery di Londra, Mantegna interpreta l'episodio dell'orto degli ulivi, in cui Gesù sperimenta la sua estrema solitudine e l'attesa dell'arresto, come un paesaggio fortemente montano, intendendo così seguire la lezione del Vangelo di Luca, che parla proprio di «Monte degli Ulivi».

Gli altri due Vangeli sinottici, Marco e Matteo, invece, parlano di un «villaggio» chiamato Getsemani. Ma Mantegna ricorda nel suo dipinto anche la presenza esplicita di una città, anzi proprio in questo rapporto tra natura e città risiede la singolarità di questo dipinto.

Comunque le montagne incombono sullo sfondo (forse le Dolomiti, che Mantegna doveva avere ben presenti) su una città ideale, fortificata, in cui elementi medioevali s'intrecciano a colonne e monumenti romani in una sintesi architettonica nuova.

Il paesaggio per Mantegna non è mai di sola natura, ma sempre intrecciato a tracce di civiltà antica, quella romana in particolare, che aveva lasciato reperti importanti a Verona, dove il pittore aveva vissuto.In questa tavola Mantegna crea una città astratta e al contempo realissima, incastonata in una montagna pietrosa, appena interrotta da arbusti e coniglietti, dentro cui stanno, come sculture estratte dalla pietra, i personaggi.

Il Cristo ha la visione degli angeli, anche qui accogliendo la versione di Luca: «Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo». Gli angeli, in realtà poco confortanti, portano i simboli della Passione (la colonna del martirio, la croce, la lancia con cui verrà trafitto il costato). E rivolge al Padre la sua preghiera: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà».

Non è dunque uno spazio neutro, il Getsemani di Mantegna, ma uno spazio che deve restituire e partecipare al dramma, all'angoscia di Gesù. E Mantegna si avvale delle due cime montuose per mostrare l'arrivo dell'«impero delle tenebre» (ancora Luca). E fa sentire il peso di quelle montagne come fosse una forza superiore, che sovrasta la civiltà e gli stessi personaggi della vicenda: vediamo Giuda arrivare con i soldati, vediamo gli apostoli addormentati, ma il paesaggio montano, con quelle due cime, è dominante.

Solo Gesù compete con loro, inginocchiato su una roccia scheggiata che sembra il basamento pronto per una statua romana, che lo separa dal resto del mondo, lo erge, preparandolo al monte del Golgota.

La montagna assume la medesima funzione che possiamo riscontrare nella quattordicesima scena del ciclo di affreschi che Giotto dedica a san Francesco nella Basilica superiore di Assisi, quella del miracolo dell'acqua.

Qui, come ad Assisi, la montagna rappresenta quella eccedenza che sfugge all'uomo, che prepara al miracolo della morte e Resurrezione e avvicina al cielo. Ma in Mantegna la composizione si arricchisce di un elemento architettonico più complesso, che dialoga con la natura e fa sentire la sua presenza. La natura dialoga con la Storia, la storia romana, che rinasce nella campagna veneta. Mantegna è appunto questo Rinascimento della civiltà romana. Ma Rinascimento è anche trovare un nuovo equilibrio con la Natura.

È molto ricca la simbologia, in questo dipinto: il pellicano, figura del sacrificio di Cristo, l'avvoltoio sui rami secchi che prelude alla morte, i conigli disseminati sulle strade, emblema della vita che si rinnova. C'è in Mantegna una precisione fiamminga nella pittura e nella composizione, pur nella straordinaria capacità di sintesi e nella definizione dei dettagli delle rocce e degli alberi.

E questa capacità lenticolare la si riscontra, ancora più accentuata, in una versione dello stesso soggetto di pochissimi anni prima, custodita a Tour, dove l'impianto è lo stesso, ma si respira una maggiore armonia, una più accentuata ascendenza belliniana.

Mirabili sono i dettagli, appunto: il ponticello su cui saltella il coniglio, la cesellatura delle architetture della città, gli armigeri che si avvicinano, gli alberi carichi di frutta, l'angelo solitario che sfreccia su una nuvola giottesca. Ma qui la montagna è un elemento tra i tanti, più roccia che montagna. E Gesù, in modo corrispondente, appare meno solo.

Possiamo confrontare, a questo punto, i dipinti di Mantegna con la tavola di analogo soggetto di Giovanni Bellini, di cui Mantegna aveva sposato l'unica figlia, Nicolosia, nel 1453.

Il dipinto di Bellini è solo di un anno prima, ma la differenza è importante: la roccia è un inginocchiatoio, è quasi un oggetto di design, più morbido e stondato. Tutto è più addolcito. Gesù, in una posa di tre quarti, è totalmente immerso nella natura, è parte di un tutto armonico. C'è Giuda che accorre con i soldati, ci sono gli apostoli vinti dal sonno; ci sono una lontana architettura, un campanile alla sinistra, e una città a destra, posati su due colli verdeggianti. Tutto respira allo stesso ritmo, gli uomini, la natura, la civiltà.

O meglio, la natura in Bellini tutto avvolge, e la roccia si adegua a questo movimento di valzer sinuoso.

Il Rinascimento di Giovanni Bellini è la piena armonia di uomo e natura. Il Rinascimento di Andrea Mantegna è un nuovo, difficile equilibrio, tra Natura e Storia.

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