Che fretta c’era, maledetta primavera, cantava Loretta Goggi, e nei sentimenti non c’è niente di peggio di un amore ostacolato o, peggio ancora, non ricambiato. Un Don Rodrigo che si mette di mezzo si può pensare di farlo fuori, mentre un’amata che non ti si fila, o ti rassegni e diventi una ginestra, come Leopardi, o ti butti dalla finestra scegliendo la soluzione di Werther e dell’Ortis. Perché non è affatto bello da vivere, lo struggimento senza speranza, e chi soffre sa che sarebbe meglio non sentire niente. Per questo esistono gli antidepressivi.
Quindi non ha mica tutti i torti il bravissimo Diego De Silva nel suo ultimo romanzo intitolato senza mezzi termini: Sono contrario alle emozioni (Einaudi). Non solo un nuovo episodio della vita filosofica di Vincenzo Malinconico, sedotto e abbandonato e seduto su un lettino di uno psicanalista, ma uno splendido manuale di sopravvivenza sentimentale per trentenni/quarantenni, e per fortuna qui non c’entrano i TQ, qui è tutto molto intelligente. Anzi, incluso nel prezzo di copertina De Silva vi regala un insieme di tanti preziosi trattatelli di varia umanità, con un’attenzione particolare agli anni ’70 e alla musica leggera. Dove, per esempio, risulta molto più avanguardistica Raffaella Carrà di Vasco Rossi, lei che già nel 1971 voleva una vita piena di guai («La vita è tanto bella ma/ se non ci sta il coraggio/ non è saporita senza un po’ di guai») e senza considerare quello splendido manifesto di libertinismo spensierato su quanto è bello far l’amore da Trieste in giù e «tanti auguri a chi tanti amanti ha» e senza bisogno di tanti alibi e giri di parole. Ma allora perché la Carrà non è diventata una rockstar maledetta? «Semplice: per la sua naturale attitudine a far passare i contenuti più scomodi senza neanche occultarli con la metafora».
Tra i piccoli saggi dei nostri comuni drammi generazionali, illuminante la «sfiga per annate» («Quando avevamo vent’anni, le ragazze volevano i quarantenni. Quando abbiamo compiuto quarant’anni, volevano i ventenni. Ormai non ci speriamo neanche più che venga il nostro turno»). Oppure l’analisi dei supereroi come degli sfigati amorosi, perché «un supereroe vincente è inammissibile. Un eroe, per essere super, dev’essere sfigato. Non può avere più di una donna alla volta e, se ce l’ha, dev’essere infelice anche con quella. Chi non ha mai notato la somiglianza tra l’Uomo Ragno e Paperino?». Infatti i supereroi non sono più un modello oggi, nell’epoca del tronismo e del reality show: «i ragazzini non vogliono più andare a vedere i supereroi il sabato pomeriggio perché hanno semplicemente capito che non conviene essere Superman. Molto meglio salvare se stessi, non l’umanità».
Tante madeleines, in questo romanzo della nostalgia svuotata e dell’emozione invivibile perché, una volta resuscitato, il ricordo si annulla e apprendere informazioni equivale a renderlo inoffensivo. A cominciare dai merendini estinti, in un altro splendido capitolo alla recherche del merendino perduto: il Carrarmato Perugina, il Croccante al cacao Algida, il Tin Tin Alemagna, il Kit Kat no («ma non posso lamentarmi della sua mancanza perché ancora lo fanno, peccato»). Internet, in fin dei conti, ha rovinato le emozioni, qualsiasi film, qualsiasi ricordo dell’immaginario bello perché vago: con Google tutto diventa accessibile con un clic e spesso si scopre che non è poi un granché, perché «quell’esattezza ti ha sterminato l’immaginazione, l’ha invasa e rovinata per sempre».
Insomma tra amore e dolore, si impareranno tante cose, tipo: come farsi consolare da una vecchia amica, come non tagliarsi la lingua leccando una busta, come riconoscere un trasferito, come non partire per un viaggio, come incrociare l’assoluto ricordando i Duran Duran, e anche, infine: «ma perché la gente non si fa i cazzi suoi?». Infine, cercando di salvarsi dal «boomerang biografico», i luoghi ideali per innamorarsi restano gli aeroporti, dove c’è una percentuale altissima di donne bellissime di cui innamorarsi, cioè: in aeroporto sembrano tutte top model, perché? De Silva ve lo spiega scientificamente. E anche, infine, proustianamente, perché «quello che più di tutto mi attira, quello che proprio mi devasta di una donna in un aeroporto, è il pensiero che non la rivedrò mai più. E una donna che non rivedrai mai più è bella per forza. Una donna che non rivedrai mai più è tutta immaginazione. Una donna che non rivedrai mai più è una donna a cui prometteresti qualunque cosa pur d’impedirle di andarsene».
È come l’Albertine di Marcel Proust, alla fine il Narratore scopre che il momento più profondo e reale dell’innamoramento era quando l’aveva appena intravista, quando non sapeva niente di lei, quando la massima profondità era tutta sulla superficie dell’immaginazione. È la fortuna della Silvia di Leopardi, essere lì alla finestra, o di Fanny Targioni Tozzetti, non essersi mai concessa a Giacomo, essere una stronza qualsiasi.
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