MAOMETTO ON THE ROAD

Il mondo visto alla rovescia, visto penzolando a testa in giù, e con furore, dalla mezzaluna dell’islam. Ecco la prima impressione che si ha se si decide, ed è un bel tuffo, di immergersi nelle pagine di Michael Muhammad Knight, l’autore di Maometto on the road. Viaggio al termine dell’islam (Castelvecchi, pagg. 434, euro 19,50). Si tratta, infatti, di un libro che ha come caratteristica fondamentale quella di far saltare in aria le categorie, mettendo un bel po’ di tritolo intellettuale sotto i pilastri, presunti, di una delle principali religioni del mondo.
Michael Muhammad Knight è, infatti, una strana creatura. Il figlio di quella incredibile ibridazione religiosa che, a partire dagli anni Sessanta, ha portato gli afroamericani degli Stati Uniti ad avvicinarsi al Corano, spinti dal sogno di incontrare una religione di cui l’uomo nero, il moro, potesse sentirsi al centro. A decenni di distanza i musulmani d’America - spaziano dalla Nation of Islam a cui fu vicino Malcolm X (che la disconobbe) sino ai sunniti di origine pakistana passando per i convertiti bianchi, fan dei sufi e dei dervisci - sono milioni e rappresentano il magma più innovativo e incontrollabile di una delle religioni più legate al senso dell’ortodossia e della fedeltà alla liturgia.
Bene, Knight, che è contemporaneamente integralista e sghembo punkettone, rappresenta la sintesi di questa incontrollabilità. È evidente a partire dalla più banale sintesi dei suoi dati biografici: nasce nello stato di New York nel 1977, da madre di origine tedesca, e viene spedito a studiare in una scuola cattolica. All’età di quindici anni si converte, dopo aver letto i libri di El-Hajj Malik El-Shabazz (leggasi Malcolm X) e parte a tutta velocità verso Islamabad per studiare alla Moschea di Faisal. Lì medita per un po’ sull’opportunità di partecipare alla jihad islamica in Cecenia. Poi lascia perdere. Perché?
Perché odia tutto quel razzismo di cui il Pakistan trabocca, perché secondo lui l’islam deve garantire i diritti delle donne, anzi è fondamentale che siano anche le donne a guidare la preghiera. Allora torna in America, lancia il movimento Taqwacore (sonorità hard core, testi rigorosamente inneggianti ad Allah) e scrive un romanzo: Islampunk, uscito in Italia per Newton Compton. Intanto inizia a picchiare duro contro quelli che lui considera integralisti dell’idiozia molto più che integralisti della religione. Tutto questo sino a che una frase comparsa su un blog fa il giro del mondo: «Il Profeta non avrebbe approvato preghiere officiate da donne? Il profeta ha torto, caghiamogli in testa. La ilaha illa Allah (non esiste altro Dio che Allah, ndr)».
Insomma un islamico convertito e convinto che nel prendersela con gli islamofascisti, come li definisce lui, si spinge molto più in là di quanto si siano mai spinti Rushdie o qualsiasi vignettista danese. Lo fa con la coscienza di uno che si sente musulmano davvero, e vede nell’unicità di Dio (il tawhid) il solo dogma che conta. «Non sono maomettista... Se il Profeta fosse comparso ai nostri giorni predicando la violenza domestica, io non l’avrei seguito. Non avevo bisogno di fare a botte con un morto per convincerlo della mia opinione».
Eppure nel lungo viaggio che Knight compie dentro se stesso e in giro per il mondo - in Maometto on the road sono raccontati il suo ritorno in Pakistan e svariate altre peregrinazioni, compresa quella alla moschea dove Muhammad Ali pregò in Germania - la sua convinzione religiosa appare fortissima: «Sai perché sono diventato musulmano? Perché i musulmani non pregano i cadaveri. Ho avuto un’educazione cattolica, i cattolici pregano i morti: Gesù, Maria, i santi, cadaveri di tutti i tipi. Ma io sono musulmano, noi preghiamo Dio».
Ed è inutile porsi la questione se, nonostante la sua splendida capacità narrativa, il giovane Michael Muhammad, a furia di rimbalzare da una cultura all’altra sia andato fuori di cervello. Se perdere qualche rotella significa trovarsi una propria strada, e raccontare le cose non diversamente da come ci appaiono, a Knight sta benissimo di essere considerato matto: «L’astronave madre è il fianco di mia madre, io sono il Mahdi di me stesso. La mia porta per la città della conoscenza, io sono l’Ali di me stesso... Io sono Maometto di me stesso». Ecco perché è un po’ il Kerouac dell’islam, anche se lui ci gioca sapendo di giocarci, e riesce a raccontarne ciò che molti «veri credenti» si rifiutano di dire. Ecco perché si inginocchia verso la Mecca e riesce a difendere gli aspetti mistici di una religione antichissima che molti «infedeli» non riescono a capire.
Una posizione scomoda, la sua. E questa volta non per gioco o posa intellettuale: i fondamentalisti sparano e in Pakistan potevano incarcerarlo in un lampo, a partire da una frase a caso di uno qualsiasi dei suoi testi. Eppure anche nei culti che sembrano immobili, inchiodati al peso del passato, qualcuno deve pur guardare oltre.

Allora, in un mondo largo di conflitti di civiltà e stretto a causa di troppe shari’a, non resta che augurare a Knight ciò che lui si augura (all’inizio del libro) con le parole di Robert Bolt: «Preghiamo che, quando la sua testa avrà smesso di girare, il viso sia ancora rivolto in avanti».

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