Mark Roe, il guru del gioco corto che ha «guarito» il putt di Francesco

Il golf di Francesco Molinari non ha bisogno dei sottotitoli: il gioco del Chicco nazionale è infatti nitido e pulito come quello di nessun altro giocatore. E difatti, sono stati anni, questi, in cui il torinese non ha mai avuto bisogno del TomTom per trovare la strada del fairway o del green. Che si siano invece alzate le saracinesche in green, beh, questa è la vera novità che rimbalza da Shanghai. Che la buca spalanchi i suoi cancelli e si lasci nuovamente stregare dalle traiettorie dei putt di Francesco è infatti la più felice notizia della settimana cinese. La precisione chirurgica e il metodo elevetico con cui Molinari ha gestito il duello al sole con Lee Westwood, sono doti del torinese di cui si era a conoscenza da un pezzo e che fanno da sempre parte del suo bagaglio tecnico.
Certo, scrollarsi di dosso la pressione del numero uno del mondo che per quattro giorni gli è rimasto ferocemente incollato addosso manco fosse un tatuaggio, è un’impresa da titani del golf. Ma è anche ovvio e lampante che Francesco non ci sarebbe riuscito se il suo putt si fosse nuovamente avvalso della facoltà di non rispondere. Non la scorsa settimana: le statistiche ci indicano infatti un Molinari primo nella speciale classifica del green con soli 25 putt a giro, a fronte del 65% dei green presi con i colpi regolamentari. Numeri da capogiro. Dunque, forse l’aver sperimentato sulla propria pelle la pressione supergiga della Ryder Cup fa apparire tutto il resto, soprattutto i cosiddetti «calci di rigore» da un metro e mezzo dalla buca, semplice, abbordabile e banale. O forse, parafrasando il mondo del ciclismo, i ripetuti successi del fratello e di Manassero gli hanno semplicemente tirato la volata.
Più probabilmente, invece, sono stati i consigli del coach Mark Roe (ironia della sorte, lo stesso coach di Westwood!), a cui Francesco recentemente si è rivolto, a sbrogliare la matassa del suo putt. Ora, chi è quest’inglese di 47 anni è presto detto: in Europa Mark Roe è infatti l’equivalente di Dave Stockton negli Stati Uniti. Un guru del gioco corto. Un ex giocatore di Tour che, una volta ritiratosi dalle scene agonistiche, si è dato all’insegnamento. Ma non all’insegnamento tout court, sia chiaro: solo a quello intorno al green. Approcci, bunker e, soprattutto, putt, dunque.
Dal 2006, anno del suo abbandono delle gare dopo ben ventuno stagioni trascorse sul circuito europeo e tre vittorie (e una famosa squalifica per aver firmato lo score sbagliato dopo tre giri nell’Open Championship del 2003, gara in cui era a due colpi dal leader), Roe ha inaugurato in patria un’Accademy super specializzata. Da lì, per affinare «the art of the short game», sono transitati Fisher, Dougherty, Clarke, Hansen e Bjorn. Lo stesso Westwood, feroce avversario di Francesco a Shanghai, con Roe ha limato la sua tecnica intorno al green, da sempre l’unico tallone d’Achille (se così si può chiamare) del suo golf altrimenti perfetto. Da qualche tempo, dunque, anche Chicco bazzica da quelle parti. I risultati li abbiamo potuti ammirare la scorsa settimana sui green del Sheshan International Golf Club: un attraversamento più fluido della testa del putt attraverso la palla e molto più feeling intorno alla buca.
Ma il golf non è solo una… questione di feeling. Ovvio. Ci vogliono grande dedizione, indomito lavoro e profonda serietà per riuscire a non perdere la strada quando sei eterni secondi posti ti fanno credere che la sfortuna ti sia socia al cinquanta per cento.

Ecco: in questi quattro anni senza vittorie, Francesco Molinari non si è mai perso, proprio perché dedizione, lavoro e serietà sono parole che sono stampate a caratteri cubitali sul suo biglietto da visita. E, proprio grazie a loro (e a Mark Roe), da domenica, Chicco finalmente non è più… secondo a nessuno.

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