Gianni Marongiu, recentemente scomparso, è stato uno dei grandi e dei pochi docenti di diritto tributario di formazione liberale. Sua figlia, Paola, ha avuto la cortesia di inviarmi due favolosi libri di storia delle finanze. Uno in particolare mi ha colpito: Il fisco e il fascismo (Giappichelli, 2020). Marongiu, come tutti i liberali doc, ha avuto una decisa allergia per il regime, la fascistizzazione dello Stato, le sue violenze, la guerra e Mussolini. Ma la sua analisi del periodo che qualcuno definisce del «consenso» è straordinaria. Il taglio è quello fiscale e coincide con il ministero di Alberto De Stefani. Il primo Mussolini, quello del 1919, quello sansepolcrista, è una via di mezzo tra il rivoluzionario e il socialista e il non ancora Duce che propone «l'espropriazione fiscale». Tutto cambia in un paio di anni: «ci opporremo con tutte le nostre forze ai tentativi di socializzazione, di statizzazione, di collettivizzazione - dice Mussolini il 21 giugno del 1921 alla Camera - . Lo stato ci dia la polizia che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia ben organizzata, un esercito pronto tutto il resto, e non escludo neppure la scuola secondaria, deve rientrare nell'attività privata dell'individuo». Si tratta, dirà un gran liberale come Maffeo Pantaleoni, del discorso più manchesteriano (oggi si direbbe liberista) «mai fatto nel parlamento italiano». A Napoli nel 1922 Mussolini va oltre e parla di uno stato che «deve rinunciare a qualsiasi gestione di attività economica e restituire ai privati l'esercizio di quelle funzioni che aveva con il tempo usurpato».
Il ministro De Stefani, fascista poi critico, lo seguì su questa linea. Per prima cosa «disboscò la legislazione fiscale bellica» fatta di numerose tasse e regole di emergenza. «Con riguardo alla riforma dell'ordinamento tributario - scrive Marongiu - non perseguì obiettivi redistributivi aumentò la pressione fiscale sulle classi agrarie con un alleggerimento su quello industriale». Istituì un'imposta personale, ma solo moderatamente progressiva, abolì l'imposta di successione. In pochi anni, tra il 1922 e il 1925 «la situazione della finanza pubblica migliorò, la scomparsa delle entrate transitorie di guerra fu compensata dalle entrate permanenti del tempo di pace, ma soprattutto diminuì la spesa pubblica che passò dal 35 al 13 per cento del reddito nazionale. E ritroviamo la più rapida ritirata dello stato dalla vita economica nazionale verificatesi nella storia d'Italia».
Meno imposte, meglio distribuite, meno stato nell'economia, pareggio di bilancio e riduzione del debito pubblico che passò dal 148% del Pil del 1920 al 61% del 1927. Il sistema fiscale, in particolare quello locale, risultava ingarbugliato, e ci furono interventi e sussidi ad hoc, ma insomma parliamo di un miracolo. Che presto finisce.
Passa l'era liberale, la gestione De Stefani, arriva il partito della Confindustria e dal manchesterismo intriso di libero scambio e mercato dei primi anni si passò al protezionismo, alla difesa della lira con i dazi. E questa è la storia economica in discesa, verso gli inferi, che ci racconta la seconda parte del libro di Marongiu.
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