Un marziano da 9’’50 oltre il muro delle emozioni

A vevamo giurato a noi stessi, dopo l'incubo di Seul, due giorni senza sonno, record mondiale e titolo olimpico di Ben Johnson sui 100 metri in 9"79, che non ci saremmo più entusiasmati vedendo un uomo volare sulla pista. Quel giorno, era il 24 settembre del 1988, un giamaicano di Falmouth, emigrato giovanissimo nel gelo del Canada, dove per sfamarsi accoppava piccioni nel parco, il Ben Johnson che aveva cominciato a correre con scarpe più grandi di due numeri perché c'erano soltanto quelle del fratello da sfruttare, lasciò ad oltre un metro Carl Lewis. La storia era intrigante, il record stordente, ma durò appunto mezza giornata. Dal giornale ci svegliarono nella notte: «Ben Johnson squalificato per doping...». Tutto il lavoro fatto divenne carta per la trippa ancora prima di andare in edicola.
Vero che restava il record olimpico di Carl Lewis, quel fenomeno che si era consacrato fra gli immortali quattro anni prima a Los Angeles, ma restava l'amarezza di essere stati imbrogliati. Da quel giorno abbiamo provato ad emozionarci ancora per quei pochi secondi che tengono il mondo in silenzio, ma poi era difficile mandare giù tutti quei rospi, doversi rimangiare ogni cosa.
Eravamo decisi a tenere nascosta l'emozione, ma poi è venuto fuori questo ragazzo della Giamaica che sembrava troppo alto per diventare un grande partente in una finale olimpica, poi è arrivato questo tipo che si mangia il pollo fritto prima della corsa che vale la gloria, che arriva sul traguardo ridendo, con una scarpa slacciata, che ci arriva andando a mille all'ora, che già si iscrive ai giochi marziani.
Ora tutti rivivono il brivido della finale vinta proprio a mani basse da Usain Bolt, chiedendoci di andare indietro nel tempo per sapere quante volte abbiamo giurato che l'uomo era arrivato al massimo della sua velocità e oltre certi muri non avrebbe potuto andare. Lo pensavamo per il tedesco Harmin Hary che correva in 10 netti volando nel fumo della pistola di uno starter che lo curava, ma mai lo prendeva.
Poi hanno cominciato a prendere a spallate il muro, prima Bob Hayes, poi Jim Hines, in altura a Mexico City con quella corsa in 9"95 che ci portava nell'altro mondo. Sempre nel cielo correva Calvin Smith, eguagliato poi con 9"93 da Lewis ai mondiali di Roma.

Fu ancora il prodigioso Carl a stordirci nel mondiale di Tokyo con 9"86, abbattendo il muro dei 9"90, poi Burrell fece meglio di nuovo e quindi toccò a Bailey, altro giamaicano del Canada, stuzzicare gli dei (9"84), ma ci volevano quelli di Atene, prima che finisse il secolo, per spingere Maurice Greene sotto i 9"80 (9"79 il 16 giugno 1999) aprendo un'altra epoca, un periodo dove cadevano primati, ma anche teste, fino al doppio record di Powell, fino a questo volo di Usain Bolt sotto i 9"70. Dai giorni magici di Owens nel maggio del 1935 ad Ann Arbor ci diciamo che l'uomo non andrà mai così forte e poi siamo da capo e con Bolt non abbiamo di sicuro ancora visto tutto perché questo vale già 9"50.

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