Una città nella città. Con le sue leggi, i suoi contratti. Una Milano oscura quella di molti immigrati musulmani. Arrivati qui dalle zone rurali più arretrate dal Maghreb e portatori di regole - o pretese usanze - che oggi sarebbero inconcepibili nelle metropoli arabe.
Usanze come la poligamia. Il matrimonio di un uomo con più donne. Una realtà ben presente a Milano, come ha confermato ieri la presidente dell’Associazione delle donne arabe in Italia, Dounia Ettaib: «Solo alla mia associazione sono arrivate richieste di aiuto di 15 donne - ha spiegato a Palazzo Marino, a margine di un’audizione in commissione Affari sociali - e questo può dare l’idea del fenomeno». La classica punta dell’iceberg. «A Milano credo che si arrivi a decine di casi, forse centinaia. Noi ne stiamo seguendo solo una piccolissima parte».
Matrimoni fuori dalle legge ovviamente, clandestini, ma di fatto praticati, e celebrati - secondo la giovane donna di origine marocchine, da molti anni in Italia - nelle «moschee» della città, «in viale Jenner, ma non solo». Sebbene per l’Islam il matrimonio non sia un sacramento, ma un semplice contratto fra due persone. «La poligamia era anche uno strumento di tutela degli orfani - ha spiegato in commissione la presidente - ora è uno strumento di adulterio, ed è per questo che queste unioni vengono celebrate nei centri islamici».
La celebrazione di «normali» matrimoni islamici fra fedeli è un fenomeno che i dirigenti delle moschee milanesi ammettono apertamente. L’imam di Segrate, Ali Shwaima, non ha avuto alcuna difficoltà a riconoscere che nel suo centro sono decine i casi in un anno. «Noi consigliamo di andare anche in Comune o nei consolati a regolarizzare l’unione perché abbia effetti legali in Italia, per esempio per la pensione» ha aggiunto Shwaima, spiegando qual è la procedura seguita nel suo centro: «Chiediamo gli stessi documenti che chiederebbe il Comune, e verifichiamo il celibato e il nubilato». Altra condizione ovviamente è che gli aspiranti coniugi siano entrambi musulmani: «La loro religione deve essere la stessa - ha spiegato l’imam -. Fra due persone di religione diversa non va bene, ma noi non indaghiamo nel cuore delle persone. Ci fidiamo di quel che dicono, se frequentano la moschea, se pregano». Esistenza ed entità del fenomeno erano riconosciute anche dall’imam Abdullah Tchina, adesso esponente della comunità di Cascina Gobba (l’ala più oltranzista che si è separata dalla Casa della cultura di via Padova): «I matrimoni celebrati nel corso dell’anno? Alcune decine, e l’imam - ha detto in passato - invita a creare delle famiglie omogenee dal punto di vista religioso. E anche a registrare in Comune il matrimonio».
Stesso semplice invito che sostiene di fare «normalmente» anche la guida spirituale dell’Istituto culturale islamico di viale Jenner, Abu Imad. Alcuni mesi fa riconosceva di essere qui anche per corrispondere al bisogno della sua comunità di «vedere amministrata la sharia». La «legge di Dio», soprattutto in materia di diritto di famiglia: unioni, matrimoni, ripudi, i divorzi «per colpa».
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