MATTOTTI «La creatività? Sta tutta nella distrazione»

Il famoso disegnatore, che venerdì sarà ospite al «Festival della mente», racconta il suo rapporto con l’ispirazione

Il tratto di Lorenzo Mattotti non è sempre lo stesso. Non è una fuga dalla realtà. Non è un sogno. Non è un gioco. Il tratto di Lorenzo Mattotti non è poesia e non è narrazione pura. Il tratto di Lorenzo Mattotti non è molte cose. Eppure Mattotti è uno dei disegnatori-illustratori-narratori-artisti-creativi più riconoscibili e riconosciuti si può dire al mondo. E senza tema di esagerare.
L’architetto bresciano Mattotti, classe 1954, ha iniziato in Italia, nei primi anni Ottanta, con un gruppo di disegnatori chiamato Valvoline, di cui facevano parte Igort, Giorgio Carpinteri, Daniele Brolli, Jerry Kramsky e Marcello Jori. E già allora l’impalpabile, il mescolamento di linguaggi e stili, la lontananza in corpo e spirito dal mainstream e insieme l’affetto per il fumetto tradizionale, la dialettica con l’irreale, una sublime forma d’ironia struggente catturavano il cuore, innescavano misteriose nostalgie e impedivano all’occhio di catalogare quella nuova forma in altre precedenti. Da allora Mattotti è cambiato e non è cambiato.
Dopo la pubblicazione che lo ha rivelato, Fuochi, nel 1984, ha prodotto almeno una ventina di altri libri, tra cui Incidenti, Signor Spartaco, Doctor Nefasto, L’uomo alla finestra, Labirinti, Caboto, Stigmate, Jekyll & Hyde, fino all’ultimo, Lettere da un tempo lontano (Einaudi, pagg. 61, euro 16), tradotti in tutto il mondo. Pubblica su quotidiani e riviste come The New Yorker, Le Monde, Le Nouvel Observateur, Corriere della Sera e La Repubblica. Si è trasferito a Parigi. Ha lavorato per la moda, collaborato con registi come Antonioni, Soderbegh, Wong Kar Wai e illustrato Pinocchio per l’infanzia. E naturalmente ha avuto occasione di far avvicinare ai suoi lavori molti sguardi, in esposizioni come l’antologica del 1995 al Palazzo delle Esposizioni di Roma, il cui titolo, a dieci anni di distanza, è lo stesso usato dal Festival della Mente di Sarzana, di cui sarà ospite l’1 settembre, alle 19, Fortezza Firmafede: Altre forme lo distraevano continuamente.
«Non ho ancora smesso di distrarmi» ci confessa. «Anzi, forse sono più indeciso e distratto di prima. Il mondo è cambiato e sono cambiate le mie esisgenze. Rifletto su nuovi obiettivi. Ma il metodo è sempre lo stesso: il disegno. E le possibilità del disegno mi distraggono continuamente. Ho ancora più modi per esprimermi, tanto che certe volte è come se mi perdessi. In questo momento sono attratto da una modalità che non è fumetto, non è illustrazione e non è pittura. È un modo di espressione evocativo che si allontana dalla narrazione tradizionale. Una specie di zona di confine immersa nell’emozione».
Lei si sente a suo agio nelle zone di confine. E spesso dice ciò che il suo disegno non è, mai ciò che è.
«Nel confine, continuamente insicuro, indefinito, mi sento a mio agio. Ecco perché le mie certezze diminuiscono sempre. Ricordo che un tempo descrivevo questo luogo della mente come “zona fatua”».
Da dove viene l’ispirazione? Da questo mondo o da un altro?
«Non credo molto all'ispirazione. Credo a un’energia che bisogna incanalare. Si tratta di un lavoro a tavolino, da fare giorno per giorno. Lì, seduti davanti al foglio, vengono fuori bisogni e interessi. Ci sono temi che non ho mai avuto la possibilità di toccare perché ero più concentrato a imparare a raccontare. E le ho lasciate a un tempo più maturo. L’ispirazione è un insieme di distrazioni interiori che si arricchiscono nel tempo. Se a distrarmi fosse la mondanità, mi sentirei meno creativo. Il disegno vive anche di solitudine: serve a non far disperdere le energie e a far emergere le emozioni. Quando si disegna, si mette in atto una mediazione e per farlo bisogna concentrarsi, favorire il gesto, creare un filtro».
Quando è scoccata per lei la scintilla della creatività?
«Tutto parte dal motore che si è deciso di impostare da giovani: alcuni sono incantati dalla ricerca, altri dall’imprevisto, altri dallo sport. A me è capitato nella prima adolescenza: ho provato un piacere talmente forte nel vedere l’arte allo stato nascente, che non ne ho più potuto fare a meno. Quando ci si chiudeva coi miei fratelli in una stanza a suonare e nasceva un'armonia, la magia era creata. Mi dicevo: è un bel momento, voglio viverlo per sempre. Poi ho cercato le strade per ripeterlo».
Ha metodi personali di concentrazione?
«Il silenzio totale non mi aiuta. La musica invece mi stimola. Forse più della stessa pittura. In generale, le altre arti favoriscono la concentrazione, aumentano la mia creatività. Tuttavia, mentre un tempo il cinema mi influenzava molto, oggi quello che mi ispira di più è la contemplazione dei luoghi. Guardare la gente, i grandi spazi, le prospettive che si aprono all’improvviso, il viaggio: tutto questo provoca scintille. Fissare l’occhio su ciò che si muove, sulle nuvole. Forse perché vengo da una fase di chiusura e intimità, dalle stanze e dai rapporti intimi tra uomo e donna di Lettere da un tempo lontano: ho bisogno di uscire».
C'è un legame anche fisico con la creazione?
«Sicuramente. I meccanismi gestuali, che intuisco ma non so spiegare, influiscono molto sul disegno. Per un lungo periodo della mia vita, il disegno è stato collegato nella mia mente alla fatica fisica, una specie di prova di forza. Adesso, spesso mi accorgo che non ho più l’energia, lo scatto, l’elasticità di un tempo, che è parte integrante del risultato creativo. Se si è stanchi o impigriti, si forma una ruggine nell’intuizione. Ho paura, anche: perché il tempo passa e la pigrizia potrebbe prendere il sopravvento».
Lei ormai vive in Francia da molti anni. Ha mai pensato di tornare in Italia?
«Di fatto io vivo in Italia. Mentalmente almeno. A livello fisico ed estetico. Mi sento completamente italiano. E poi ci passo le vacanze e ci voglio tornare sempre di più. Però io sono uno che drammatizza e stare a Parigi mi regala un sano distacco, anche nel giudizio».
Qual è la temperatura creativa del globo? C’è un paese che si sta sviluppando in modo interessante?
«Quel che mi colpisce davvero è soltanto la sovrabbondanza di produzione. Una tendenza seriale, da grandi manovre, grandi numeri. Di sicuro tra questi i creativi ci saranno. Ma è sempre più difficile scovarli. È difficile mantenere una bussola pura, personale: continuare a leggere Simenon, che amo, o riscoprire Alfred Kubin, un geniale disegnatore visionario belga degli anni Trenta. Ogni settimana dieci, venti nuovi film, nuovi romanzi. Fino a qualche anno fa lottavo per esserci dentro. Ora lotto per difendermene. L’attualità mi fa paura. Mi sono fermato e aspetto: che qualcuno di cui mi fido mi dica che c’è una cosa bella. Nel frattempo mi concentro sulle cose belle che vorrei fare io».
Come si concilia tutto questo con l’urgenza implicita nelle commissioni, nei lavori per i quotidiani come il Corriere della Sera, o per la città di Torino?
«La commissione mi coglie sempre impreparato. Mi arrivano queste telefonate, come da un altro mondo. Mi stimolano. Ma poi devo riuscire a reinterpretarle in qualcosa che sento. Una volta lottavo per trovare un’immagine forte, che doveva funzionare subito. Con l’esperienza le cose che mi sembrano più risolte sono invece quelle che mi appartengono. Mi distanzio dal soggetto e mi aiuto con l’esperienza e la professionalità. Tuttavia è difficile. Magari hai passato una settimana a fare paesaggi e poi ti arriva una telefonata e devi lavorare sui volti. Una volta intitolai una mia mostra “Salti mortali”. Ecco, certe volte sono necessari questi salti mortali mentali».


Il tratto di Mattotti non sarà sempre lo stesso, ma forse quel che lo rende riconoscibile è proprio questo: è sempre un salto mortale, un saut périlleux. Colto nell’attimo più rischioso, tra la vita e la fine, in cui quella sublime forma d’ironia struggente ci fa indecisi: se inchiodarci a ricordare per sempre o farci travolgere dalla leggerezza.

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