È una partita doppia, tecnica e politica, quella della sospensione per 90 giorni del beauty contest per assegnare le frequenze tv. «Una parentesi utile», dice l’udicino Roberto Rao mentre per il democratico Paolo Gentiloni è un «capitolo chiuso». Ma sospendere non equivale a cancellare: significa che il governo apre un fronte con i partiti e un importante settore economico, con implicazioni che riguardano l'Agcom e l'Unione europea. «C’è una fondamentale differenza tra le frequenze tv e telefoniche - spiega l’ex ministro Paolo Romani, critico con il governo - le tlc spendono molto per comprare le frequenze ma nulla per i contenuti, a differenza delle tv. Comunque prendo atto che in momenti di sacrifici sembra non essere politically correct dare gratuitamente frequenze, e ora il governo ha 90 giorni per pensare e ripensare».
Per capire la posta in gioco bisogna tornare indietro di 11 anni, alla legge 66 del 2001 (governo Amato) approvata per recepire il dispositivo europeo sul passaggio delle trasmissioni tv dal sistema analogico al digitale terrestre. In tutta Europa furono gli Stati ad approntare la rivoluzione digitale per poi recuperare le spese con la vendita delle frequenze. L’Italia, anche allora, non aveva soldi. Il governo (di centrosinistra) decise di fare cassa subito e cedette le frequenze agli operatori in modo che pilotassero loro la digitalizzazione.
Rai, Mediaset, La7 e decine di altre realtà imprenditoriali misero mano al portafoglio. Tutti sostennero investimenti massicci: l’acquisto dei canali, l’aggiornamento tecnologico, l’ideazione di nuove reti, la realizzazione di nuovi contenuti. Alla vigilia del cosiddetto switch off, cioè l’abbandono del vecchio sistema, si rese necessaria una parziale riorganizzazione. Bisognava considerare le esigenze di altri operatori di telecomunicazioni: le emergenze pubbliche, la telefonia mobile, la marina e l’aeronautica, le emittenti straniere che si sovrapponevano nelle zone di confine.
Il governo Berlusconi per consentire il riordino impose alle tv di restituire un pacchetto di frequenze (il cosiddetto «multiplex»), con l’impegno di rimetterle poi sul mercato con un beauty contest. Questo meccanismo non è né un’asta a rilancio né una licitazione a invito: al beauty contest può partecipare chiunque, purché presenti parametri come gli investimenti effettuati, il progetto industriale e la professionalità. Un percorso concordato tra operatori, governo, Unione europea e Autorità per le comunicazioni.
Il beauty contest doveva già essere definito da tempo. Ed ecco che la decisione del governo Monti introduce un nuovo elemento di incertezza che colpisce soprattutto i colossi tv che hanno investito di più e assunto i maggiori impegni, in particolare Mediaset che è una società quotata in Borsa.
«Non si concede un bene pubblico senza corrispettivo», ha detto il premier. In realtà, gli operatori avevano già acquistato le frequenze e versano un canone annuale proporzionale al fatturato.
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