Pubblichiamo ampi stralci dell’inchiesta firmata da Antonio Rossitto su «Panorama» oggi in edicola. Attraverso le testimonianze protette dall’anonimato («altrimenti mi linciano») di altri operai dello stabilimento Fiat di Melfi (Potenza) è ricostruita la verità sul licenziamento dei tre metalmeccanici poi reintegrati per ordine del giudice del lavoro. Ricatti, minacce e sabotaggi: l’inchiesta offre uno spaccato inquietante della vita nella fabbrica. Dove quelli della Fiom «si sentono padroni».
Melfi, lunedì 30 agosto 2010: mancano 10 minuti alle 5 di pomeriggio. In un minuscolo ufficio nel centro storico si presenta un uomo alto, con il volto preoccupato. (...) Lavora alla Fiat di Melfi da molti anni, è un sindacalista. Prima ancora di sedere, scandisce: «Parlo solo a una condizione: l’anonimato. Altrimenti in fabbrica ho chiuso. Mi darebbero del traditore. La gente pensa che dobbiamo schierarci con i tre a prescindere. È un momento in cui la verità è scomoda: stanno tutti con la Fiom».
(...) È uno dei dieci sindacalisti che la notte fra il 6 e il 7 luglio organizza il corteo: al fianco di Barozzino e Lamorte, delegati di fabbrica della Fiom. L’agitazione viene indetta unitariamente da tutte le sigle, all’inizio del turno di notte: intorno alle 10 di sera. È l’ennesimo di una lunga serie. Gli operai protestano da nove giorni per la decisione della Fiat di aumentare la produttività. Decidono di indire una protesta anche quel giorno, alla catena di montaggio. Partecipano 52 lavoratori sui 735 impiegati sulle linee: appena il 7 per cento. Lo sciopero parte alle 2 meno un quarto. «Quelli della Fiom, armati di fischietto e vuvuzela, cominciano il corteo. Fra noi sindacalisti si discute di cosa fare. Io, nell’attesa, vado a fumare una sigaretta. Quando rientro, verso le 2.15, vedo che davanti ai colleghi ci sono una decina di responsabili dell’azienda. E Lamorte e Barozzino sono in mezzo alla linea dei carrellini, che sono fermi». L’operaio si riferisce a una pista su cui corrono, appunto, dei piccoli robot. Portano accessori da montare sulle auto che scorrono sulle linee accanto: bocchettoni, cinture, tappetini. I due delegati della Fiom stazionano davanti alla pista. Dopo si aggiungerà Pignatelli. «Lo sappiamo che là non ci possiamo stare, e appena ce ne siamo resi conto ci siamo spostati tutti» chiarisce a «Panorama» il sindacalista. Il responsabile del reparto li chiama per nome e cognome, chiede di togliersi di lì, aggiungendo che sono passibili di licenziamento. Una, due, dieci volte... «E loro immobili. Lo guardano con aria di sfida, le braccia incrociate. Rimangono così almeno un quarto d’ora». «Le regole le conosciamo» continua. «Sappiamo dove possiamo stare e dove no. E soprattutto lo sa Barozzino: i cortei sono il suo pane». È il delegato più votato dello stabilimento: 161 preferenze alle ultime elezioni di giugno. È al quinto mandato. Viene considerato il leader dell’ala più oltranzista e meno dialogante della Fiom, che alla Fiat di Melfi è la sigla con più iscritti e rappresentanti.
(...) Ancora più esplicito è un altro testimone. Anche lui è un rappresentante sindacale. E anche lui è tra gli organizzatori del corteo. «Quelli della Fiom hanno tutti i torti in questa storia. Quella notte non ottenevano niente con gli scioperi e hanno fatto un sabotaggio». Accuse gravissime. E in netto contrasto con la ricostruzione fatta da Emilio Minio, il giudice del lavoro del tribunale di Melfi che il 9 agosto ha ordinato alla Fiat il reintegro dei tre. Il sindacalista allora argomenta: «I responsabili dello stabilimento avevano riorganizzato la produzione, spostando gli operai che non scioperavano su un’unica linea produttiva. La Fiom si è resa conto di non avere fatto grandi danni e ha studiato un’azione più eclatante». (...) «Loro, del resto, si sentono i padroni dello stabilimento: non hanno paura. Se la sono cercata».
(...) «Per inciso: a me, ‘sti cortei all’interno dello stabilimento non piacciono per niente. Non si può passare davanti agli operai che non scioperano e insultarli. Quelli della Fiom urlano volgarità di ogni tipo: “schiavi”, “lavorate sempre”, “vi fate rompere il culo”, “siete quattro bastardi”. È un’umiliazione intollerabile.
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