di Massimo Colombo
«Conservatori? In Italia ne bastano cinque». No, non è una provocazione. Luigi Corbani, direttore generale e cofondatore dell'Orchestra Sinfonica «Giuseppe Verdi» - una compagine di giovani per i giovani - parla chiaro e basta. Ma attenzione: non spara nel mucchio, non è il tipo. Il suo tiro è sempre preciso, puntuale. Come il suo giudizio: documentato, mai avventato. Del resto, su come si muovono la cultura in generale e la musica cosiddetta «colta» in particolare, Corbani ne sa una più del diavolo. L’attrezzatura non gli manca: vicesindaco di Milano negli anni ’80, assessore alla Cultura della Lombardia negli anni ’90, Corbani è uno dei pochi personaggi su suolo italico a conoscere perfettamente le potenzialità di arte e cultura - quella vere - coniugate col «fattore economico». Del resto, il binomio art&culture-business, tanto praticato nel mondo anglosassone, viene sbandierato anche qui da noi, per essere subito riposto in soffitta.
Ho capito bene: solo cinque conservatori in tutto?
«Ha capito benissimo. Per avviare alla professione un musicista, ne bastano cinque in tutto il Paese. Nel senso che devi necessariamente creare una gerarchia di funzioni: cinque superscuole che formano all’attività concertistica, più varie scuole ai diversi livelli di formazione che qualifichino meglio e di più sia sotto il profilo artistico-professionale sia didattico. Basta guardare le cifre: ci sono in Italia 78 tra conservatori e istituti musicali, con circa 6.000 docenti per 3.500 diplomati l’anno, su un totale, largheggiando, di 2.600 musicisti professionisti occupati stabilmente nelle orchestre italiane, tra Enti lirici e Ico (Istituzioni concertistiche orchestrali, n.d.r.). Lei capisce che non c’è spazio per tutti, ed è evidente la sproporzione nel rapporto tra domanda e offerta, frutto di una pianificazione di fondo scorretta».
La preparazione com’è?
«E' in discesa: c’è un generale livellamento verso il basso. Poi, s’intende, c’è sempre qualcuno che emerge. D’altra parte, moltiplicare i conservatori non ha fatto moltiplicare la qualità»
E allora che si fa?
«La verità è che in Italia non esistono opportunità concrete di lavoro, e men che meno se ne creano. L’unica orchestra nuova è stata la Verdi, che ha cominciato nel ’94; ma contemporaneamente a Milano hanno chiuso l’orchestra della Rai e quella dell’Angelicum. Insomma, c’è da riorganizzare il sistema del rapporto tra formazione e sbocco professionale, tenendo conto che la musica classica non è assolutamente un settore di nicchia in Italia, in termini di fatturato diretto e indotto».
Ma come si possono creare più opportunità per i giovani?
«Un esempio: le associazioni musicali sul territorio, che erano la grande forza del Paese. Piccole o medie organizzazioni che vivevano soprattutto di passione e volontariato, e lo Stato le finanziava con poco per l’attività di diffusione della musica che facevano, sostenendo anche un ruolo sociale. Organizzavano recital, rassegne, concerti: tutte vere possibilità di lavoro per i giovani emergenti, tra l’altro spesso lontano dai grandi centri e dai grandi teatri. Se adesso lo Stato toglie loro quelle quattro lire di finanziamento, queste chiudono (vedi Società del Quartetto di Busto Arsizio). O, se va bene, boccheggiano. Siamo sempre lì: il vero problema non è tanto o solo la quantità ma piuttosto la produttività della spesa pubblica».
E la Verdi?
«Andiamo avanti. Nel 2009 faremo due grandi tournée in Svizzera e in Italia. Quest’ultima organizzata assieme alle associazioni territoriali, con 18 concerti in altrettante città». Tanta resa, poca spesa.
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