«Ma in un mese si può guarire»

C’è il buio oltre la porta. Marco Bernacci vede nero. Tenetevi i soldi: a 27 anni si può cercare qualcosa di diverso da un ricco bonifico mensile, dalla gloria di una curva. Ci sono sogni che sembrano più piccoli solo perché sono diversi da quelli di chi sta bene: Bernacci è diventato quello che voleva, un calciatore. Gioca in B, nel Torino. Ha firmato solo qualche settimana fa il suo nuovo contratto da 500mila euro a stagione. Rimarrà lì il compenso, in cassa. Non prenderà un soldo, non adesso, non quest’anno. Ha già salutato, fatto le valigie. Ciao. «Problemi personali», dice il comunicato che nasconde quello che il mondo del calcio sa: esistono i depressi, vivono, lavorano, segnano, parano. Perché la depressione non guarda quanti soldi hai, né se hai realizzato il desiderio di quando eri bambino, né se sei giovane oppure no. A 27 anni ti prende e ti toglie l’anima come a 50, oppure a 70. E se è per questo anche a 16.
Via tutti quelli che adesso si divertono a pontificare: «Ma come fa uno ricco e giovane a stare male?». Via. Lontani da Bernacci perché lontani dalla verità: non decidi quando cominciare a soffrire di una malattia che neanche sai di avere. Quando arriva è già troppo tardi per renderti conto. Ci vuole la forza, l’aiuto, la pazienza degli altri. Ci vuole fortuna. Bernacci ha avuto i primi tre, ora gli manca il terzo. Ha trovato il coraggio di dirlo senza scoprirsi. Quello che non ha avuto Robert Enke, il portiere tedesco dell’Hannover che un anno fa si è ucciso. Non ce la faceva più. Il mondo s’è commosso di fronte alla sua storia, alla moglie fissa sul campo dove il marito giocava, di fronte alla bara, con il pubblico in silenzio. Arriva sempre quella domanda, adesso come allora: «Ma come fa uno ricco e giovane a stare male?». La verità è più banale di quanto vogliano farla apparire: i calciatori non sono diversi dagli altri, nonostante i soldi, nonostante l’affetto della gente, nonostante la popolarità, nonostante la gioia presunta di guadagnare divertendosi. Nessuno immagina l’ovvio e cioè che la depressione è chimica più che psicologia: arriva anche se non ci sono eventi che la scatenano, ti prende alle spalle come un difensore vigliacco. È la gomitata che non ti aspetti. forte, in faccia, come quando salti, sei convinto di prendere il pallone e invece ti trovi per terra con lo zigomo rotto. È un attimo solo anche quando sembra una cosa che invece stavi macerando da tempo. No, il momento è uno, il resto, il dopo, quel limbo nel quale ti senti così e così è già malattia. Gianluigi Buffon non ha capito neanche quando è stato quell’attimo: «Perché proprio allora? Perché non prima? Perché non dopo?». Avrebbe mai potuto logicamente sembrare uno che potesse soffrire di depressione, Gigi? Eppure l’ha confessato nella sua autobiografia. Ha visto quello che gli altri non possono vedere: il vuoto, il nulla. «Il buco nero», come l’ha chiamato lui.
Buffon ha aspettato di guarire prima di parlare, Bernacci non ha parlato ma ha chiuso. Arrivederci a quando starò meglio. Non l’ha manco pronunciata la parola, ma non ha fatto replicare quando sono uscite le prime indiscrezioni. Perché non c’è da vergognarsi. Non è un offesa, non è un insulto, non è un’infamia. La depressione è come un’altra malattia: ha step di gravità come il morbillo o come la semplice influenza. Per qualcuno è il tumore dell’anima e forse è vero. Aspettare e confessare poi, oppure agire senza parlare sono due modi di comunicare il malessere. Nessuno sa quale sia il migliore, nessuno può permettersi di dire «devi fare così». Chiunque lo faccia non ha mai visto in faccia un depresso, non ha mai cercato di capire, ma solo di giudicare. Si può curare, si può far guarire, si può sconfiggere.

Giocare a calcio non è una medicina, così come non lo sono né i soldi, né la popolarità, né avere 27 anni ed essere per tutti felice solo perché hai realizzato il tuo sogno e quello di molti altri. Un depresso non se ne accorge neanche delle fortune, perché non è fortunato. Ha tutto e gli sembra niente. E quel niente per lui è tutto.

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