Controcultura

Il metodo della Signora: correggere allo sfinimento

Il metodo della Signora: correggere allo sfinimento

Il luogo comune vuole che Oriana Fallaci avesse un brutto carattere del quale avrebbero fatto le spese i suoi collaboratori. Falso. Era molto peggio. La dedizione di Oriana verso i propri scritti, senza distinzione di genere, era assoluta. Era pronta a ogni sacrificio per trovare le parole giuste, anche alla fine dei suoi giorni, quando ci vedeva male ed era tormentata da forti dolori alle ossa. Ai collaboratori chiedeva identica abnegazione. Per questo sono particolarmente rivelatrici le tre lettere di Oriana Fallaci incluse in Si dà il caso invece che io sia davvero uno scrittore. Lettere a Sergio Pautasso (De Piante Editore). Pautasso, direttore editoriale della Rizzoli, eseguì il lavoro di editing sul romanzo Un uomo nel quale Oriana raccontava la sua storia d'amore, politica e letteratura con Alekos Panagulis. Pautasso è alternativamente confessore e parafulmine delle sfuriate della Signora che pare insoddisfatta del trattamento ricevuto in casa editrice, dove si ostinano a considerarla una giornalista: «Si dà il caso invece che io sia davvero uno scrittore, irrimediabilmente uno scrittore. Prestato, solo prestato al giornalismo. E come tale, intenda essere trattata soprattutto da chi mi pubblica».

La Fallaci era dunque un bulldozer. Lo so per esperienza diretta. Negli ultimi anni, la Fallaci era amareggiata per il trattamento riservatole dal Corriere della Sera. Si sentiva tollerata solo in virtù del successo. Per questo riallacciò i rapporti con Vittorio Feltri, direttore di Libero. Concordarono un primo torrenziale articolo ceduto a titolo gratuito da Oriana. La cosa andò bene. Libero superò per la prima volta le 100mila copie vendute. La Signora era soddisfatta. L'esperimento fu ripetuto alcune volte. Io avevo la responsabilità di seguire tutte le fasi del lavoro e di far arrivare l'articolone (spesso di tre-quattro pagine con partenza in prima) in edicola. Per lavorare con la Fallaci era necessaria una pazienza sovrumana. Innanzi tutto le sedute interminabili di composizione e correzione del testo avvenivano per telefono. La Signora era a New York. Io a Milano. C'era dunque il problema del fuso orario. Una volta, dopo una giornata devastante di correzioni e correzioni delle correzioni, tornai a casa distrutto. Mi buttai sul divano con una bottiglia di spumante, deciso a scolarmela e sprofondare nel sonno. Il telefono squillò. Credendo fosse mia moglie, che non era in città, sollevai la cornetta. Era la Fallaci.

Oriana: «Gnocchi che ore sono lì da voi?»

Io: «Mezzanotte».

Oriana: «Bene, allora ci si ha tre ore buone di lavoro».

Io: «...»

Presi le bozze e ricominciammo.

La Fallaci componeva il testo. Poi correggeva e ricorreggeva. Quando le sembrava che fosse a posto, lo leggeva ad alta voce. Se era soddisfatta del risultato, si limitava a qualche ulteriore ritocco fino all'istante prima di mandare il giornale in tipografia. Se non era soddisfatta... si ricominciava da capo. La Signora voleva vedere tutto. Nessun dettaglio era indegno della sua attenzione. Per questo inviavo ogni sera l'impaginato corretto all'ufficio della Rizzoli di New York non prima di averlo buffamente camuffato. Infatti la Rizzoli, casa editrice della Signora, era all'oscuro di questi lavori e probabilmente avrebbe potuto opporsi. Ma non lo fece. In quel momento, la Fallaci era il Re Mida dell'editoria.

Cosa posso dire? Era un lavoro a rischio di esaurimento nervoso ma ringrazio sempre di aver avuto la possibilità di svolgerlo. Fu una lezione assistere alla tenacia della Signora, che era gravemente malata ma non si lasciava piegare dal dolore. Ciò che scriveva era la sua vita.

Quindi lo onorava fino in fondo, mostrandomi cosa sia il rispetto verso se stessi e il proprio lavoro.

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