«Mi sento un fallito della vita»

«Mi sento un fallito della vita»

C’è un che, del conversare con Ferzan Ozpetek, che fa «casa». Dopo pochi minuti si è in quell’intimità che si sa passeggera, ma che dà serenità, come tra compagni di treno. Per il regista turco de Le fate ignoranti e di Un giorno perfetto è un momento di grazia. Due mesi fa il MoMa di New York gli ha dedicato una retrospettiva dal successo straordinario. È appena uscito un libro che ne celebra la carriera: Ad occhi aperti (Mondadori Electa), che presenterà oggi (Feltrinelli, piazza Piemonte 3, ore 18.30) insieme con Ambra Angiolini: «La prima monografia su di lui» ci spiega Laura Delli Colli che lo ha curato. «La prima in cui arriva a confidarsi col cuore e spiega così perché è diventato un punto di riferimento per molti: dal pasticcere sotto casa, quell’Andreotti che gli ha fatto le torte per La finestra di fronte, ai 5000 contatti su Facebook». Sta finendo di scrivere con Ivan Cotroneo la sceneggiatura del nuovo film, che vedrà il set a Lecce: una commedia che parlerà di famiglia, avrà tra i protagonisti Riccardo Scamarcio, titolo provvisorio Congratulazioni. E il 3 febbraio ha compiuto 50 anni, di cui 33 trascorsi in Italia. Tempo di bilanci.
Come si sente in questo periodo della sua vita? A una nuova svolta?
«Ci sono due risposte. Quella ufficiale e quella che forse è meglio che non scriva».
Mi dica la seconda.
«La risposta reale è che mi sento un incapace, un fallito della vita».
E quella ufficiale?
«È che, dai e dai, la realtà mi smentisce. Quando hanno aperto la rassegna al MoMa, su «Village Voice» è uscito un articolo su di me di quelli che uno li legge in trance e pensa «Stanno parlando di un altro». Ho ricevuto una lettera di ringraziamento della curatrice del MoMa: pare che grazie alla mia retrospettiva sia aumentato il numero di iscritti. I film hanno fatto il tutto esaurito per tutto il periodo».
Due risposte inconciliabili.
«È come se ci fossero due persone dentro di me: Ferzan Ozpetek e il regista di successo».
Ci sarà un momento in cui i due si parlano.
«Io mi sento bene soltanto sul set. Appena finito un film non vedo l’ora di ricominciare. Sarò uno di quei registi che da vecchi - e quasi ci siamo - dirigono serial lunghissimi o progetti mediocri pur di non smettere mai di lavorare».
Com’è questa «sensazione da set»?
«È la stessa che ha un cuoco mentre prepara un piatto che ama: non misura, non fa porzioni, è tutto passione. Sul set si è senza pelle, ogni giorno è una scoperta, un innamoramento con le attrici, anche se non in senso fisico. Quando i giornalisti mi fanno domande troppo precise sul mio prossimo film, non so che rispondere: vedrò solo sul set se quello che ho in testa sino ad ora mi appartiene davvero».
Le piace il libro su di lei?
«Mi è piaciuto molto farlo. È il risultato di lunghe chiacchierate tra pranzo e cena. È stato scritto a tavola, come spesso accade nella mia vita».
E lei è uno di quelli che ci riesce, a portare tutti a tavola. Amici e spettatori.
«Ci riesco ancora, sì. Anche se ormai i film sono pieni di tavolate, non se ne può più, non sembra più spontaneo. Ma io me ne frego».
C’è qualcosa che le manca?
«La leggerezza. Ma non per colpa mia».
E di chi?
«È il mondo che è diventato faticoso, pesante. E vedere le persone infelici rende anche me infelice, incapace di godere dei privilegi che la sorte mi riserva. La tavolata, appunto, si gode insieme. Mi manca quando eravamo spensierati».
E quando lo eravamo?
«Diciamo prima dell’11 settembre. Dopo quella data ci siamo addormentati. O forse svegliati. I rapporti sono cambiati.

Dappertutto vedo il sospetto, l’aggressività nello sguardo».
Per questo ha deciso che il suo prossimo film sarà una commedia?
«Forse. Negli ultimi tempi mi ha preso così: anche per convincermi ad andare al cinema ci vuole un film leggero».

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