«Mi sento sicuro solo sospeso in aria»

Facile dire che vola, da giù. Philippe Petit vive sul filo: quello che tende ad altezze da vertigine, centinaia di metri sopra il suolo e pochi centimetri dal cielo, per poi camminarci sopra come se fosse una passeggiata, leggero, col suo bilanciere. Tanto che a un certo punto s’inchina, si sdraia, continua a sorridere. Lassù è nel suo elemento: funambolo quasi dalla nascita, da quando a sei anni ha cominciato, da solo, a scoprire l’arte di strada. Funambolo per natura e per consacrazione: nel 1974 il suo filo ha unito le Torri gemelle, migliaia di newyorchesi col naso all’insù ad ammirare quel puntino nero a quattrocento metri da terra. Il giocoliere francese poi si trasferisce nella Grande mela e da lì continua le sue avventure in giro per il mondo, fra ponti, teatri, grattacieli, piloni. Aveva già camminato fra le guglie di Notre Dame a Parigi, ma è quella mattina d’agosto del ’74 a New York a cambiare la sua vita. Trentacinque anni dopo la sua impresa è diventata un documentario, Man on wire, che ha vinto l’Oscar 2009 e, per l’occasione, Ponte alle grazie ha ripubblicato in Italia il suo Trattato di funambolismo. Petit risponde al telefono dalla sua casa vicino a New York.
Come le è venuta l’idea di camminare fra le Torri gemelle?
«In realtà sono state le torri a trovare me. Prima non le conoscevo. Le ho scoperte su una rivista, quando erano ancora un progetto e da allora ho cominciato a sognarle».
E com’è stato?
«Incredibile. Dopo tutti quegli anni a immaginare e prepararmi, il mio sogno si è realizzato. E camminare su quel filo era così reale, come un miracolo. È fantastico essere testimone di un miracolo».
Dopo le esibizioni a Notre Dame e a New York fu arrestato. Tornerebbe in galera per uno spettacolo?
«Di quello non mi importa. La prigione non è parte dell’avventura ma del “dopo”. E non penso mai a quel che può succedere dopo, che siano i soldi o il carcere».
Perché, che cosa succede lassù sul filo?
«Ho cercato di spiegarlo nel mio Trattato. L’ho scritto a 18 anni e già allora avevo studiato tutti gli elementi del funambolismo: l’immobilità, la danza, il vento, la perfezione, la paura. È il mio mondo».
E com’è questo mondo?
«Meraviglioso anche se duro, difficile. Ma ho scelto di vivere in questo universo pieno di sorprese, di pericoli, di bellezza».
Nelle sue imprese è sempre solo...
«La creazione artistica è sempre uno specchio della persona che crea. Forse sarà da egocentrici, ma la solitudine è necessaria per esprimere quello che è dentro di te. Sono solo sul filo e passo un sacco di tempo con me stesso».
E che cosa fa?
«Da giovane ho imparato tutto da autodidatta: mi allenavo 5-6 ore al giorno sul filo, scoprendo, inventando. Nel circo non è così: sei sempre nel gruppo. Se non fossi stato da solo non avrei potuto scoprire così tanto».
L’uomo sul filo «è pari agli dèi», come scrive nel suo libro?
«Io sono molto umano. Certi paragoni sono pericolosi. Però capisco che la gente senta qualcosa di sovrumano, che mi veda, in qualche modo, come una divinità, un angelo nell’aria. Anche se nella mia mente non è così».
Guarda mai in basso?
«Certo. Nelle grandi traversate mi fermo a metà, mi siedo, guardo intorno e in basso. È una vista bellissima, che non godrò mai più».
Perché affascina così tanto le persone?
«Forse perché offro poesia, teatro. A me non interessano i record, anche se li ho battuti tutti».
Quanto è rimasto a camminare fra le Torri?
«Quarantacinque minuti. Ho improvvisato. D’altronde era tutto illegale... Il segreto è il senso dello spettacolo, come a teatro».
Si allena sempre, anche a sessant’anni?
«Passo tre ore sul filo ogni giorno, domenica esclusa».
E dove?
«Ho un filo nella mia casa qui a New York, è lungo 25 metri e alto tre: è abbastanza per esercitarmi».
Che cos’è il limite?
«Non è una parola che applichi alla mia vita. I miei limiti sono quelli naturali: mangiare, dormire. Ma non ho rispetto per i limiti: non me ne impongo e non ne accetto».
E non ha mai paura?
«Sul filo mai. So che non devo temere nulla se mi sono preparato bene, se conosco le mie condizioni, il filo, il tempo».
E a terra?
«Ho paure umane. Per esempio ho il terrore dei cani. Se vedo un pastore tedesco cambio marciapiede, perché non lo conosco e non so come possa reagire».
Ma quando cammina per strada, come tutti, che cosa pensa? Si annoia, lo trova banale?
«Certo che no. La mia vita è piena di sorprese. Cammino per New York e mi diverto, mi sento sempre ispirato da quello che mi circonda».
Ha sempre sognato di essere un funambolo?
«No, a sei anni volevo fare il direttore teatrale. A sette ho cominciato a imparare la magia da solo, a 14 l’arte di strada e la giocoleria e a 16 sono salito sul filo».
Che differenza c’è fra l’acrobata e il funambolo?
«All’acrobata manca la dimensione della poesia, la sua è un’esibizione meccanica. A me interessa l’umanità che c’è dietro».
Davvero non ha mai paura di cadere?
«No. Sul filo devo controllare ogni dettaglio, concentrarmi: sono troppo impegnato per spaventarmi».
E quando scende? Non pensa mai al rischio che ha corso?
«Qualche volta sì, posso pensare di aver fatto qualcosa di folle, che avrei potuto perdere la vita. È come se tornassi umano di nuovo, e a terra è normale avere dubbi e paure».
Il prossimo sogno?
«Ho molti progetti. Uno è di mettere il mio filo sull’Isola di Pasqua, fra le sculture giganti, con le persone di Rapa Nui parte dello show. Sarebbe un’esibizione unica».
Perché non ha mai voluto la rete di protezione?
«Non ci ho mai pensato. Appartiene alla tradizione del circo, non è adatta a me: amo sentirmi libero. Quando cammino sul filo col mio bilanciere non credo di mettere in gioco la mia vita, sento qualcosa di nobile. Con la rete di protezione non sarei un funambolo».


E com’è stare così vicino alle nuvole?
«È la prima volta che me lo chiedono. Mi sento parte dell’universo: vivo sia a terra, sia fra le nuvole. Guardo il cielo ed è così vicino: un attimo e sarei un uccello. E quasi quasi in certi istanti mi ci sento».

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