«La mia scultura un manifesto anti-futurista»

L’ultima fatica di Michelangelo Pistoletto, «arti-star» reduce dalla Biennale veneziana, ha un titolo sibillino: «I temp(l)i cambiano». La scultura in bella mostra all’ingresso della Triennale ha in effetti tutte le sembianze di un tempio greco, con le colonne assemblate da cestelli delle lavatrici e il frontone fatto con le serpentine elettriche dei frigoriferi. Ma le due parentesi stanno lì a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che anche i tempi cambiano. Eccome. Per i protagonisti del movimento dell’Arte Povera, di cui Pistoletto fu tra i massimi esponenti, è cambiato quasi tutto, rispetto ai tempi in cui il critico-guru Germano Celant propugnava l’ideale dell’artista guerrigliero che sfidava le istituzioni. Oggi Celant celebra il connubio tra arte e moda, mentre Pistoletto è da anni artista manager alla testa della biellese Cittadellarte, fondazione in stile factory che si occupa di progetti di ricerca in collaborazione con le aziende.
L’anno scorso, durante il Salone del Mobile, presentò un’installazione intitolata «Segno Arte Uffici», ovvero l’ideale di un luogo di lavoro umano e sostenibile. Oggi un tempio dedicato al riciclo degli elettrodomestici. L’arte è in crisi d’identità?
«Per nulla. Oggi esistono due tipi di arte: quella ortodossa, che mantiene il suo valore autonomo e che occupa un livello di realtà trascendente. Poi c’è l’arte eterodossa che si apre al sociale, all’ambiente e all’economia diventando soggetto propositivo. È quella che oggi mi interessa di più».
Questa scultura fatta di scarti di lavatrici cosa propone?
«L’opera si inserisce in quello che io ho definito il mito del Terzo Paradiso, luogo dove ogni uomo deve assumersi la propria responsabilità nei confronti della saturazione tecnologica che sta soffocando il pianeta».
Dica la verità, anche lei si è lasciato tentare dall’ecobusiness.
«Guardi che in fondo mi occupavo di questi temi anche negli anni Settanta. Una delle mie installazioni più famose, la Venere degli stracci, è un chiaro esempio di contaminazione e riciclaggio in cui viene valorizzata l’estetica dello scarto. Anche allora, come oggi, utilizzai un’icona della classicità».
Sì ma parliamo di 40 anni fa. Anzi, la decontestualizzazione dei rifiuti industriali risale già a Duchamp e ai nuovi realisti degli anni ’60. L’arte ha ancora bisogno dei ready made?
«La faccenda è diversa. A quei tempi, gli artisti assemblavano materiali usati e oggetti di scarto per dar loro un nuovo senso, una valenza come dire simbolica».
Il suo tempio invece?
«Qui l’opera “esce”, implicandosi direttamente nel sociale. Diventa cioè una sorta di manifesto del riciclaggio come strumento di salvaguardia dell’ambiente. In questo senso siamo all’opposto dei Futuristi che proprio a Milano propugnavano la rivoluzione tecnologica e il trionfo della macchina sull’uomo. Oggi le esigenze sono mutate. Dobbiamo raggiungere un punto di equilibrio con la tecnologia e lo sviluppo e l’arte se ne deve occupare».
Ma lei crede davvero, come sosteneva il tedesco Joseph Beuys, al ruolo dell’artista demiurgo?
«Io penso che, soprattutto nei momenti di crisi, l’artista possa diventare un elemento centrale, un soggetto che attraverso la propria creatività smuove le coscienze».


Perché alla Biennale di Venezia ha distrutto 22 specchi?
«Lo specchio nel mio lavoro significa appunto l’uscita dalla splendida solitudine dell’artista e la sua messa in relazione col pubblico, con l’uomo comune. Rompendo gli specchi, divido e moltiplico il concetto. Ma questa è un’altra storia».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica