«La mia vita da Serpico a Porta Venezia» La storia dell’ispettore capo di Città Studi premiato dai cittadini con uno striscione

Il 2 febbraio scorso ha festeggiato 30 anni di servizio in polizia, ma per lui - che dal 1987 non ha fatto un giorno di malattia, in vacanza ci va una settimana all’anno perlopiù annoiandosi e lavora 7 giorni su 7 (sulle ore, è meglio sorvolare, non le conta più da un pezzo) - è stato un giorno come gli altri. L’ispettore capo Giuseppe Garufi - classe 1960, originario di Catania ma a Milano dal novembre ’79, 14 encomi solenni alle spalle - quel giorno l’ha passato al commissariato «Città Studi», facendo ciò che fa di solito e che più gli piace: lavorare. Quello per la sua professione di poliziotto è un amore vero e assoluto che la moglie Sara (signora che non conosciamo ma della quale nutriamo la massima considerazione ed è facile capirne il perché), sposata 21 anni fa e il figlio 19enne Andrea accettano come qualcosa di ineluttabile. Una dedizione totale alla guida della squadra di polizia giudiziaria di via Cadamosto, 4. Così giovedì, a sorpresa, l’associazione di commercianti e cittadini «Futura Baires Venezia», che considera l’ispettore il Serpico della zona, ha voluto celebrare questa sua «missione» donandogli una targa ricordo con la scritta «Leone rampante alla virtù civica» in una cerimonia organizzata a sorpresa all’hotel Galles di via Ozanam e stendendo uno striscione, da un lato all’altro di corso Buenos Aires con la scritta rossa in campo bianco che recita: «Grazie ispettore Garufi». Una cosa mai successa prima a Milano per un rappresentante della legge.
Si dice che si sia commosso... Tutto vero?
«Verissimo: non me l’aspettavo. Del resto io so lavorare solo così e questo premio mi ha colpito perché me l’hanno dato con il cuore, dimostrando di avermi capito. Quando la gente del quartiere viene da me io ascolto tutti e mi arrovello intorno al loro problema fino a quando non sono in grado di aiutarli. Spesso le persone sono impreparate alla vita. E non parlo solo di coloro che comprano dagli ambulanti abusivi di corso Buenos Aires, macchè! Per me ogni rogna del quartiere è un caso da risolvere, non ce n’è. Così mi fumo un pacchetto di sigarette al giorno, mi carico di adrenalina e procedo».
Ha iniziato alla Celere nel ’79, poi è passato al commissariato di Porta Genova con la prima squadra investigativa in borghese, quindi al commissariato Lambrate e ora, da 10 anni, qui a Città Studi. Com’è cambiata la polizia per uno come lei che la gente chiama «l’ispettore gentile»?
«Tanto. Siamo sempre più consapevoli che capire e saper ascoltare le sensazioni della gente è fondamentale per il nostro lavoro. Il poliziotto deve proteggere e dare sicurezza, ma anche diventare all’occorrenza (non voglio diventare pedante) confidente, psicologo, oratore, entrare nel cuore del problema del cittadino e farlo suo. Ricordo il caso di una ragazza violentata dal padre da almeno 7 anni: m’immedesimai a tal punto nella situazione che non ci dormivo la notte.

Del resto, nei commissariati, ci si occupa soprattutto di estorsioni, di droga e di violenza sulle donne e sui minori».
E un vero poliziotto come dev’essere? Non si emoziona mai?
«No: trattiene le emozioni. È calmo, ha sangue freddo, non esterna, ma accumula. Cosa vi devo dire? Io più lavoro, più mi stresso, più...Sto bene!».

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