«Prendi il meglio del passato, rileggilo in chiave critica e portalo nel futuro». È questa la leva maestra del successo dello chef Massimo Bottura, un visionario che fa avanguardia attingendo alla tradizione. Nel nulla della campagna modenese, ha creato un'oasi di bellezza - Casa Maria Luigia - dove l'alta ristorazione fa tutt'uno con l'arte. La sua Osteria Francescana (Modena) compare tra le vette della ristorazione: tre stelle Michelin, e la stelle verde nel 2020, numero uno nella classifica dei World's 50 Best Restaurants nel 2016 e nel 2018. Con il compagno di banco di Ragioneria, presidente e AD di Gucci Marco Bizzarri, ha creato la linea di ristoranti Gucci Osteria con sede a Firenze, LA, Seoul e Tokyo. C'è poi una cosa di cui Bottura va particolarmente orgoglioso, condivisa con la moglie Lara Gilmore: i Refettori di Food for Soul, luoghi dedicati all'accoglienza dei membri più fragili della comunità, dove vengono serviti pasti buoni e nutrienti a partire da eccedenze alimentari, contrastando così lo spreco e favorendo l'inclusione sociale. Si tocca quota tredici, ma l'obiettivo è quello di crescere. E Bottura fa un'anticipazione. «Vorrei aprire un Refettorio a Betlemme intitolandolo a mia mamma, Maria Luigia. Spero di farcela l'anno prossimo. Già vedo i lunghi tavoli fratini dove far sedere tutte le religioni del mondo, lì, nel vecchio convento di monaci italiani che da oltre un secolo fanno pane per la comunità. È un posto da favola. Che muri... le volte, i giardini, i fasci di luce. Tutto da fare ma tutto già pronto.
Lei è credente?
«Credo nelle buone idee. Betlemme potrebbe essere una buona idea ed arrivare al cuore della gente, forse più efficace di tanti incontri diplomatici.
La sua è una vita tra lirica e cucina. Siamo al Metropolitan Club di New York dove cura la cena dei Friends del Festival Verdi di Parma, città di Verdi e di Toscanini. Lei è cresciuto nella Modena di Pavarotti e della Freni...
«...e aggiungo di auto veloci, dell'arte e di eccellenze in tanti campi. Questa è l'Emilia»
...e questa è l'Italia.
«Negli ultimi due anni mi sono talmente re-innamorato del mio Paese. Nel menu Vieni in Italia con me racconto la bellezza dei prodotti, la grandezza degli artigiani, di allevatori, pescatori, casari che ci assicurano materie uniche e sapori spettacolari. Con la Bellezza non si fa la rivoluzione, diceva Camus, ma un giorno la rivoluzione avrà bisogno della bellezza. Dà forza sapere che al nostro fianco ci sono architetti, designer, artisti: l'espressione più alta dell'Italia, figure che tutto il mondo ci invidia. Questa è l'Italia della luce, limpida, pulita. È l'Italia degli imprenditori del Bello e del Buono. L'Italia che voglio comunicare».
L'Italia di tanti successi. Parliamo del suo: qual è il segreto?
«Duro lavoro, cosa che noi Emiliani abbiamo nel sangue. Alzarsi la mattina, andare a letto a notte fonda e nel frattempo aver fatto ciò che si era scelto di fare».
Papà non era convinto della sua scelta professionale. La voleva avvocato...
«Vengo da una piccola città dove il pezzo di carta era considerato irrinunciabile. Bon de nient. Tenghe voia fer niint si diceva a chi non voleva fare certi studi. Come tutte le persone che negli anni '60 abbracciavano il successo, anche mio padre riteneva che le sue pianificazioni avessero un valore tale da essere applicabili a tutti. Mamma la pensava diversamente, e non smise di spronarmi a trovare una strada che fosse mia, dove canalizzare le energie».
E lei ne ha tante.
«I miei ragazzi di 20 anni si chiedono da dove vengano. Sono sempre stato così, uno nasce con questo carico di dinamismo».
La signora Maria Luigia, la mamma, è stata la sua stella polare.
«Mi ha aiutato in tutti i passaggi. Tra l'altro era appassionata di cucina. Mia mamma era una bravissima cuoca perché amava cucinare, mentre mia nonna era meno brava perché doveva cucinare».
Al punto che Bizzarri si auto-invitava a pranzo.
«Mi sembra ancora di sentirlo, Pronto Luisa..., che è poi diventato il titolo di un piatto, è il riso primavera, assieme a i passatelli il prediletto di Marco (Bizzarri)».
Torniamo alla mamma.
«Nel novembre 2013, sembrava che ci stesse lasciando, allora le sussurravo nell'orecchio Forza che ti preparo un risottino ai tartufi per il compleanno. Il giorno dopo riprese forza e si alzò, io preparai il risotto per tutta la corsia. Tornata a casa, le comunicai che avremmo fatto il primo Refettorio, l'Ambrosiano di Milano. Era la persona più felice di questo mondo. Se ne andò in gennaio».
Lei guarda sempre avanti. E sogna.
«Il sogno è alla base del futuro. Il futuro devi averlo dentro, è coraggio perché ti mette sempre in discussione dunque non è facile da accettare. Coraggioso è il nome del cittadino che vive nel futuro».
La tradizione che ruolo ha?
«Dobbiamo guardarla in chiave critica e mai nostalgica, prendendone il meglio per portarlo nel futuro. Così rinnovi anche le tradizioni. I tempi cambiano, la società si evolve e noi dobbiamo saper cavalcare le evoluzioni».
Con la tradizione dei tortellini, entra in campo il Tortellante, laboratorio di pasta fresca che coinvolge famiglie con figli autistici. Ennesimo suo progetto.
«Nonne e i giovani adulti diversamente abili collaborano per tenere vive tradizioni come quella di piegare il tortellino a mano. Questi ragazzi sono bravissimi nella ripetitività delle cose, per loro è più difficile maneggiare l'irrazionale che ripetere minuziosamente gli stessi passaggi. In Emilia abbiamo una forte spinta sociale e senso comunitario, io so di aver avuto tanto dalla vita e per questo voglio restituire, il Tortellante me lo consente».
È considerato un Talento ribelle e in quanto tale analizzato (nell'omonimo libro) da Francesca Gino, docente alla Harvard Business School. Che effetto fa essere un caso di studio di Harvard? Come si sta nei panni del talento ribelle?
«A dire il vero, non bado mai a quello che faccio. Cerco sempre di pensare molto lentamente e di analizzare prima di prendere una decisione. Sento molto il carico di responsabilità».
Più di prima?
«Essere considerati un punto di riferimento ha fatto aumentare in modo esponenziale le responsabilità, mi piace il confronto con i collaboratori ma la decisione ultima è sempre mia. I ragazzi mi hanno dedicato un piatto intitolandolo If I'm Wrong I'm Right (Se ho torto, ho ragione), che è poi la storia della mia vita. Tutti a dirmi Non fare il Refettorio, io lo faccio e ho ragione. E ancora, "Non aprire i ristoranti Gucci. Io li apro e sono un successo. Ricorderò sempre l'appuntamento al buio con Marco Bizzarri e Alessandro Michele, direttore creativo Gucci: 15 minuti e il format era già chiaro».
Vero, ma in quel quarto d'ora convergevano tre menti non proprio ordinarie.
«E che per questo potevano anche scontrarsi. Però Alessandro Michele era molto rispettoso della sua idea, io della mia, e su tutto c'era rispetto vicendevole. Questo fece sì che le scintille fossero positive. Marco ascoltava e prendeva appunti su un taccuino. Alla fine disse, Ok. Il progetto parte. È stata vincente l'idea di portare il meglio dell'Italia nel mondo e di accordare libertà creativa ai cuochi scelti per il progetto».
Liberi sì. Ma dopo aver raccomandato...?
«Di porre la tecnica al servizio della materia prima e non del proprio ego. Troppe volte i cuochi dimenticano che il nostro dialogo è con il palato delle persone e non con la mente delle persone».
Lei ha un palato unico al mondo. Così disse lo chef Alain Ducasse. Prima di questa osservazione, ne era consapevole?
«La consapevolezza me l'hanno data i cuochi con cui ho lavorato. Parto da Georges Cogny, Porterai Modena nel mondo, mi disse. Dopo avermi strappato gli appunti presi nella sua cucina, Ducasse mi esortò a seguire il mio palato Hai un dono, coltivalo e credi in te stesso. Jiro Ono, il grande maestro giapponese di sushi, a 85 anni lasciò per la prima volta il suo locale per partecipare a un evento per i pescatori e i contadini colpiti dal disastro di Fukushima. Quando gli chiesero cosa l'avesse spinto a uscire per la prima volta dal suo ristornate, rispose Me lo ha chiesto Bottura, che per me è il più grande palato del mondo, è l'unico uomo che può entrare nel mio ristorante senza prenotazione».
Con un palato come il suo si nasce o lo si può anche costruire col tempo?
«Penso sia questione di allenamento».
Come l'ugola per i cantanti?
«Proprio così. Per me è stato vitale viaggiare continuamente. Assaggiare il meglio del mondo ti evolve, affina il palato. Poi guai a partire dal presupposto che un tacos a Città del Messico è un tacos e basta evitando di andare nella criticità dei sapori. Così come non devi dare per scontato che un sushi a Tokyo è sushi, semmai devi analizzare l'acidità del riso, la qualità del calamaro, vedere come hanno lavorato la sardina che ti servono sopra. Questo è un approccio che apre mondi, altrimenti ti perdi nella quotidianità».
Tra gli amici fidati c'era Sergio Marchionne. Cosa ha rappresentato per lei quest'Italiano impareggiabile?
«Un po' come Jean Todt, Marchionne capì subito il mio modo di vedere le cose. Veniva spessissimo all'Osteria Francescana, mangiava in ufficio per via del fumo».
Nel senso che consumava i capolavori Bottura fumando?
«Eh sì. Era come uno di famiglia. Aveva un modo di fare e di dire che ti coinvolgeva subito. Mi diceva continuamente Massimo, adesso devi chiudere il cerchio dell'ospitalità creando un posto all'altezza della Francescana, che dia la possibilità agli ospiti di poter passare qualche giorno a Modena in una location privata e di qualità, dove si respiri l'aria della campagna emiliana. Un giorno vidi un'azienda agricola sequestrata dal tribunale. Decisi di visitarla con Marchionne, tra i rovi si intravedeva un viale, non riuscivamo ad andare oltre il cancello. In 30 secondi lui fece quest'analisi: Siamo a cinque minuti dall'uscita autostradale di Modena Sud, 20 minuti dall'aeroporto di Bologna e da Maranello. È un posto privato, estremamente protetto. Prendilo. Girammo la jeep, e rientrammo. Così nacque Maria Luigia. Ripercorrere i momenti passati assieme mi fa venire i brividi. Mi raccomandava sempre, Se hai bisogno di qualsiasi cosa chiamami. Non ascoltare nessuno, vai avanti per la tua strada. Io telefonavo alla sua segretaria, tempo 5 minuti e avevo già il suo riscontro».
Il piatto preferito di Marchionne?
«Mangiava di tutto, però prediligeva la cucina italiana nella sua essenza. Quindi materia prime semplici e appena toccate dalla tecnica. Sapori netti e puliti. Una cucina molto mediterranea».
Nel frattempo lei è approdato a Maranello con il ristorante Cavallino.
«John Elkann era sempre al fianco di Marchionne, così è poi nato un fortissimo legame con John. Nel primo lockdown, ogni giovedì mi incontravo da remoto con lui, la moglie Lavinia e tutti i collaboratori. Volevamo qualcosa che comunicasse al mondo intero la forza di un'Italia di grande qualità. La qualità delle idee, perché noi italiani siamo quello. Ecco il Cavallino».
Se dovesse dare un titolo alla sua vita?
«Domanda difficile... Ieri una giornalista del New Yorker mi ha chiesto quale sarà il prossimo sogno. Le ho risposto che devo ancora sognarlo perché quelli fatti sono stati tutti realizzati. Allora come titolo direi Una vita vissuta come un sogno».
Ma coi piedi per terra.
«Questo è fondamentale. Poi, c'è mio figlio e i suoi problemi a tenermi coi piedi per terra e a ricordarci che la vita ha priorità diverse rispetto a quelle che troppe volte ci poniamo».
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