«La Milano di papà è solo un ricordo»

«La Milano di papà è solo un ricordo»

Marco Risi, regista e sceneggiatore, nato a Milano ma residente a Roma, 58 anni tra due giorni, figlio del grande Dino, icona della commedia all'italiana. Il suo ultimo film, «Fortapasc», è imperniato sugli ultimi mesi di vita di Giancarlo Siani, il giornalista precario del Mattino di Napoli, ucciso a soli 26 anni da sicari del clan Nuvoletta, il 23 settembre 1985.
Queste vicende fanno parte del passato, oppure nelle dinamiche mafiose non è cambiato nulla?
«Beh, intanto qui parliamo di camorra più che di mafia, e tra le due c’è una sottile differenza. La camorra è più evidente, si percepisce di più, è più palpabile; in altre parole, si ha perfino la sensazione qualche volta di vederla. Comunque, a giudicare dalla condanna a morte di Roberto Saviano, direi che le cose non sono cambiate. Mi riferisco a questo potere nascosto - ma neanche poi tanto - dei camorristi che stanno prendendo piede e che fanno spesso i loro affari con le istituzioni. Il problema vero, è inutile negarlo, sta proprio qui: c’è una parte delle istituzioni compromesse con la criminalità organizzata».
Lei ha apprezzato il lavoro di Saviano?
«Certo, ho stimato il suo lavoro, il suo libro Gomorra fa davvero pensare. E ho anche apprezzato il film di Matteo Garrone, che ne ricostruisce a perfezione vicende e, soprattutto, ambiente ed atmosfera. Il mio film, invece, è un qualcosa di diverso rispetto a “Gomorra”; ha un andamento completamente differente, poiché parla di una camorra diversa. “Fortapasc”, in un certo senso, è un film che si doveva fare anni addietro. Tratta di una camorra legata alla mafia: quella dei Nuvoletta infatti era una famiglia legata ai corleonesi di Totò Riina, e quindi di una camorra di 24 anni fa. Il nostro film ha un andamento classico, con un protagonista che seguiamo dall’inizio alla fine della vicenda, mentre “Gomorra” è un lavoro più rapsodico, più segmentato, con tante piccole e grandi storie anche slegate tra loro. In sostanza, in “Fortapasc” c’è un filo conduttore che ci accompagna per tutta la durata della pellicola».
La produzione cinematografica attuale subisce in qualche modo la crisi economica internazionale?
«Beh, guardiamo la questione attraverso la lente positiva. Le crisi, in qualsiasi ambito, tendono per loro natura a stimolare creatività; costituiscono sovente uno stimolo a livello artistico, perché inevitabilmente provocano una rottura, una frattura con lo status quo».
Anche Roma la subisce...
«Roma è cialtrona: vive di superficialità e anche di fantasie. Gore Vidal, in “Roma” di Fellini, dove interpretava se stesso, diceva della capitale: “Quale città migliore per vedere la fine del mondo!”».
Spostiamoci a Milano. Quali grandi attori e attrici, a suo dire, incarnano il concetto di «milanesità»?
«Direi senza dubbio Franca Valeri: è davvero unica, più spiritosa ancora del milanese classico. Poi c’è Gino Bramieri: come dimenticarlo? E ancora, irresistibile, Mariangela Melato, davvero fantastica…».
Tra i registi che lavorano o hanno lavorato all’ombra della Madunina, quali apprezza di più?
«Beh, oggettivamente mi sento molto vicino a mio padre, poi Luigi Comencini, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Luchino Visconti...».
E i fratelli Vanzina, con la loro produzione nazional-popolare?
«Io sono amico di Carlo e i loro film aiutano l’industria cinematografica. Inoltre pellicole come “Yuppies” e “Vacanze di Natale” per me sono veramente una fotografia di una certa “milanesità”, molto meno banale o scontata di quanto possa sembrare al primo approccio. Ma non tralascerei i film con Renato Pozzetto, altro interprete attento di una certa “milanesità”. Oggi c’è Gabriele Salvatores, napoletano che però proprio a Milano ha cominciato la carriera e, guarda caso, con il teatro. Personalmente, amo molto anche Silvio Soldini».
E tra i film?
«“Il posto” di Ermanno Olmi mi ha cambiato la vita, senza dubbio il mio preferito in assoluto, espressione di un certo cinema fatto di sentimenti e di piccole, personalissime annotazioni che mi hanno veramente modificato il modo di pensare».
Andiamo oltre: il teatro i suoi miti...
«Giorgio Strehler, Dario Fo, Visconti... Rischiamo di non fermarci più».
Qualche ricordo?
«Un flash: mio padre Dino mi raccontava che, durante la guerra, lui e Strehler furono internati in Svizzera. Poi, alla fine del conflitto, Strehler fece “L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello, e mio padre gli prestò la camicia bianca per recitare. Sì, sono fortunato: ho dei ricordi bellissimi».
Secondo lei, quanto è forte il legame tra cinema e «cultura meneghina»?
Mah, diciamo che a Roma il legame con il cinema si sente di più, comunque in generale Milano mi sembra più spenta. Speriamo che il sindaco Moratti dia una sferzata di energia a questa città».


Significa che Milano non è più trainante?
«Quando Milano, negli anni passati, in particolare quelli della cosiddetta “Milano da bere”, era connotata come “città d’affari“, era sicuramente la capitale economica di Italia e trainava il Paese. Ora mi sembra che si sia spento tutto. Lo vedo dalle piccole cose, da segnali apparentemente insignificanti, come certi negozi che chiudono. Spero che il futuro riserverà una ripresa per Milano».

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