Luca Fazzo
Tre passioni: i soldi, la politica e la stampa. E la consapevolezza che tutte e tre le passioni si incontrassero alla fine in un terreno comune, in quel mondo complesso e brutale dove si decidono i destini di un Paese. E che di quel mondo fosse necessario essere protagonisti. Guido Roberto Vitale se ne è andato ieri, a ottantuno anni, dopo avere incarnato per quasi metà della sua esistenza una di quelle figure, rare e cruciali, che nella grande partita del potere sanno muoversi senza perdere la bussola. Se la definizione di «banchiere d'affari» gli andava stretta, non lo ha mai dato a vedere. Ma è chiaro, ripensando alle sue mosse in questi decenni, che a divertirlo era soprattutto la capacità del potere economico di influire sulla vita politica del paese. Due uniche discese in campo esplicite, una all'inizio e una poco prima del crepuscolo della sua carriera: quella del 1991 accanto a Mariotto Segni e quella vent'anni dopo al fianco di Matteo Renzi, finanziato e sostenuto soprattutto nella sfortunata battaglia referendaria. In mezzo, una vita da protagonista in tutti gli snodi più complessi della storia della finanza italiana. Di fronte ad una crisi, a un mutamento di scenario, quasi sempre a un certo punto entrava in scena lui: prima con la sua Euromobiliare poi - dopo l'accordo e il divorzio con gli americani - con la Vitale & Borghesi, che poi entrerà nell'orbita planetaria di Lazard. Poi di nuovo da solo. Perché sempre e comunque il valore aggiunto era lui, il suo mix di competenza tecnica, buon senso, relazioni. Dal salvataggio di Cirio alla guerra in Rcs, a dirigere il traffico è stato spesso questo vercellese aperto.
Con la politica, se si eccettua l'infatuazione per Renzi («mi piace perché è l'unico uomo di sinistra a non avere letto Marx») aveva un rapporto laico. A Giorgio La Malfa, segretario repubblicano, aveva procurato i finanziamenti sottobanco che, scoperti dal pool Mani Pulite, ne causarono le dimissioni e la sparizione: Vitale se ne fece una ragione. I suoi interlocutori nel Palazzo erano quelli consueti della borghesia milanese, la classe sociale cui peraltro, nell'ultima intervista al Foglio, ha riservato parole pesanti: «È sempre stata molto attenta ai propri interessi privati e poco a quelli della Nazione».
Si sentiva, a dispetto dei natali, un vero, profondo milanese, e anche nella scena politica milanese gli piaceva far pesare la sua voce: ma con una laicità di fondo, una indipendenza dai clichè dei salotti buoni.
Dei sindaci Moratti e Albertini (col quale pure c'erano stati dissapori) parlava bene. Mentre si era pentito di avere firmato, spinto da Piero Bassetti, il «manifesto dei 51» per Giuliano Pisapia: «Moratti e Albertini hanno rilanciato Milano. Poi è passato uno, senza che nessuno se ne accorgesse».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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