Era stata presentata come l'ultima prova del legame di ferro che, in nome del narcotraffico, unisce i clan calabresi alla criminalità organizzata milanese. All'alba del 28 gennaio i finanzieri arrivati da Catanzaro avevano fatto scattare a Milano sette paia di manette: era la costola settentrionale dell'operazione «Ossessione», ventisei arresti in tutto, andata a colpire - grazie al pentimento di tale Antonio Femia - il clan dei Mancuso di Limbadi, la famiglia più antica e potente della 'ndrangheta nella provincia di Vibo Valentia. La retata era scattata con ventisei fermi d'urgenza disposti dalla Procura di Catanzaro per impedire la fuga degli indagati.
Per legge, a dover convalidare il fermo degli arrestati a Milano è il tribunale di Milano. E ieri il giudice preliminare Ilaria De Magistris annulla sei fermi su sette. Inoltre rifiuta di emettere le ordinanza di custodia in carcere chieste dai pm calabresi. Tornano liberi i milanesi che la Gdf accusava di aver fiancheggiato e finanziato due colossali tentativi d' importazione di cocaina dal Sudamerica, poi abortiti, e di essersi poi consolati facendo arrivare a Milano un carico di 429 chili di hashish, sequestrato dalle Fiamme Gialle in un box di via Anguissola.
In manette erano finiti nomi importanti delle cronache nere milanesi: come Francesco Scaglione, palermitano, diventato famoso soprattutto per il «colpo» a Casa Damiani nel febbraio 2008, quando si presentò insieme a tre complici con le pettorine da finanzieri nella gioielleria di corso Magenta, impacchettò quattro dipendenti e la donna delle pulizie e se ne andò con cinque milioni in gioielli. O come Luigi Mendolicchio, milanese, in teoria commerciante d'auto in viale Espinasse, in realtà - secondo gli inquirenti - assai legato a Mimmo Branca, l'ex boss di piazza Prealpi. E insieme a loro tre calabresi, un marchigiano e una bella venezuelana accusata di essere il «contatto» con i fornitori in Sudamerica.
Mercoledì scorso il giudice De Magistris va in carcere a interrogare gli arrestati. Scaglione e Papandrea, difesi dall'avvocato Angelo Colucci, si proclamano ovviamente innocenti ( «Di tutti questi signori - dice Scaglione dei suoi presunti complici calabresi - ne conosco solo un paio perché abbiamo fatto la galera insieme» ). Tutto come da cliché, si dirà. Ma il giudice si mette di buzzo buono a studiare il monumentale decreto di fermo emesso dalla Procura di Catanzaro. E ieri deposita l'ordinanza che lo azzera. Non c'era nessuna traccia che volessero scappare, scrive, e soprattutto non c'erano prove. Le importazioni dalla Colombia erano al massimo un'idea, un progetto mai davvero entrato nella fase operativa (anche perché l'improbabile intermediario viene etichettato dagli stessi compratori come un «pagliaccio») e in ogni caso «il contenuto delle uniche intercettazioni che riguardano Scaglione non hanno alcun contenuto che consenta di collegarle a un evidente contenuto illecito».
In un mare di contatti infruttuosi, di viaggi su e giù tra Milano e la Calabria, di riunioni nei bar della banda sotto la Madonnina (come il «Bar Vincente» di via Fratelli Zoia, gestito dal figlio di Scaglione) il giudice vede solo pasticci e inaffidabilità che neutralizzano i progetti criminali.
E per l'unico affare andato in porto, l'hashish sequestrato in via Anguissola, i milanesi non c'entrano: gli «sporadici elementi probatori» a carico di Scaglione non dimostrano che abbia finanziato l'importazione dell'hashish, lo stesso vale per Papandrea che si limita a chiedere «informazioni circa l'importazione del fumo». E anche Gina Forgione, la bella venezuelana, «compare sostanzialmente solo in due occasioni, e con condotte neutrali rispetto all'affermazione di una sua partecipazione attiva negli affari».