La «Bindi» è in crisi: un futuro amaro per i dolci milanesi

Dopo aver tagliato 120 persone su 700 la proprietà chiede altri sacrifici. Le speranze dai turisti di Expo

La «Bindi» è in crisi: un futuro amaro per i dolci milanesi

Sarà colpa della crisi. O, come brontola il sindacalista dellla Cgil Roberto D'Arcangelo uscendo per l'ennesima volta dalla fabbrica, «del solito capitalismo italiano formato famiglia».

Sta di fatto che un altro di quei marchi che hanno fatto la storia di Milano annaspa nella lotta per sopravvivere. Chi non ha mai mangiato un semifreddo della Bindi? Chi non ha mai sentito, al calare della sera, pedalando sulle strade intorno alla via Emilia, l'odore inebriante di pasticceria che veniva dallo stabilimento?

Chissà come finirà, la storia della Bindi. «Bindi, fantasia del dessert», diceva un vecchio slogan. Ma oggi forse la fantasia è venuta meno, quella fantasia che era indispensabile per stare a galla nei momenti bui, e convincere la gente che è proprio nei giorni amari che c'è bisogno del dolce.

Di fantasia ne aveva tanta Attilio Bindi, quando da Chiesina Uzzanese, nella pianura tra Lucca e Pistoia, si spostò a Milano. Aveva fatto il cameriere nelle trattorie, e un'idea gli frullava in testa: liberare i cuochi, in affanno perenne tra sughi e bolliti, dall'obbligo di fare anche i dolci, che portano via un sacco di tempo e non sempre danno soddisfazione. Dal primo negozio di via Larga, davanti al Teatro Lirico, comprato nel 1946 per centottantamila lire, sguinzagliava i suoi garzoni in bicicletta per i ristoranti del centro, a consegnare i dessert freschi di forno. Gli rubavano le biciclette («diciassette in tutto», narrò anni dopo) ma fu l'inizio di un piccolo impero che da Milano si è allargato all'Europa e al mondo, con clienti a Mosca e a New York. La crescita proseguì poderosa: a cavallo degli anni Novanta la Bindi quintuplicò il fatturato, e arrivò a controllare da sola quasi un terzo del mercato.

Venne data vita alla Sipa, Società italiana prodotti alimentari, che nella storica fabbrica di San Giuliano aveva solo una delle sue attività.

Le avvisaglie dei guai arrivano quattro anni fa, con il mercato che inizia a calare. Nei ristoranti milanesi, ondate di dolci magari meno buoni ma a prezzo più basso sloggiano dai menu le torte e gli zuccotti di Bindi.

Il peso delle sue stesse dimensioni - nella fabbrica di San Giuliano lavorano settecento persone - piega le gambe della ditta. A dicembre dell'anno scorso, i sindacati firmano un accordo che mette fuori dalla fabbrica quasi centoventi persone, tra cassa integrazione e mobilità. Ma non basta. Nei giorni scorsi l'azienda comunica che la crisi si è fatta più nera, e quegli esuberi non bastano più. Chi passa oggi davanti alla fabbrica, invece di sentire il profumo dei dolci vede le bandiere dei sindacati e i cartelloni con gli slogan contro i dirigenti.

Il vecchio Attilio, il fondatore, è morto da molti anni, senza vedere la sua creatura diventare un colosso e poi imboccare il declino.

A maggio di quest'anno, dopo una lunga malattia, se n'è andato anche Rino Bindi, il suo primogenito.

Restano l'altro figlio, Romano, e il nipote Attilio, a fare i conti con i conti che non tornano.

Se la caverà la Bindi? «É solo questione di tenere duro - dice il sindacalista D'Arcangelo - tra un po' c'è l'Expo e arrivano milioni di persone. Volete che qualche torta in più non si venda?».

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