Eppure la verità era a portata di mano, pronta a riemergere alla prima occasione, appena una nuova tecnica o un nuovo spunto ne avessero fornito la possibilità. Magari, come spesso accade, quella verità avrebbe deluso le aspettative: raccontando che dietro la tragedia di via Mancinelli non c'era un complotto dello Stato e dei suoi servizi deviati, non c'erano le torbide e crudeli manovre dalla destra eversiva venuta da Roma. Avrebbe riportato la morte di Fausto e Iaio nella durezza concreta di quegli anni milanesi, fatti di politica ma anche di eroina: con i collettivi dell'ultrasinistra scatenati a dare la caccia agli spacciatori di droga, il nemico che nelle loro file faceva più vittime della repressione poliziesca. Nessun grande complotto, nessuna trama oscura: solo la feroce vendetta di una banda di spacciatori. A ben guardare, una verità che avrebbe dato maggiore grandezza alla figura dei due ragazzi, vittime precise di una vendetta precisa e non caduti casuali e inconsapevoli di una improbabile strategia della tensione.
La verità sulla morte di Fausto e Iaio stava in un cappello di lana scura, conservato all'ufficio corpi di reato del tribunale. E svanito nel nulla. È il cappello sporco di sangue trovato sul luogo del delitto, identico a quello indossato di solito da un personaggio della zona, preso di mira e sprangato pochi giorni prima da una delle «ronde proletarie» che davano la caccia agli spacciatori. Sia Fausto che Iaio erano presenti al pestaggio dello spacciatore: a dirlo sono la ragazza di Fausto, Paola, e la sorella di Iaio. Può apparire assurdo, che due ragazzi di appena diciannove anni partecipassero o almeno assistessero a una aggressione tanto brutale: ma brutali erano quegli anni a Milano.
Nel 1988, a vent'anni dal delitto, un giudice istruttore riapre il caso del delitto di via Mancinelli. Chiede di esaminare il cappello. Incredibilmente, l'ufficio Corpi di reato del Tribunale gli risponde che non esiste più: è stato buttato via, «per motivi igienici», nonostante il delitto fosse ancora irrisolto, dopo l'allagamento che aveva colpito i sotterranei del Palazzo di giustizia. E la pista della vendetta degli spacciatori si richiude lì.
Eppure, fin dall'inizio, molte tracce portavano in quella direzione: fatti e testimonianza concrete, ben più delle rivendicazioni - contraddittorie, tardive, e in qualche caso visibilmente apocrife - che nei giorni successivi erano piovute sulle redazioni dei giornali a firma di improbabili gruppi neofascisti romani, mai comparsi prima e mai riapparsi dopo. Perché la morte di un estremista di destra romano, ucciso da un gioielliere durante un tentativo di rapina, dovesse venire vendicata ammazzando due ragazzi del Leoncavallo, d'altronde nessuno l'ha mai spiegato. E se a dover essere vendicata era la morte di Sergio Ramelli, il diciassettenne del Fronte della Gioventù ucciso tre anni prima a Milano, l'obiettivo ovvio sarebbe stato Andrea Bellini, capo della «banda» omonima, di cui nè Tinelli nè Iannucci facevano parte: era Bellini, grazie all'operazione di depistaggio organizzata dai veri assassini di Ramelli, a venire indicato in quel periodo come il colpevole dell'aggressione al giovane neofascista.
La «pista romana», rilanciata anche di recente da un libro, viaggia su racconti di pentiti, testimonianze de relato, spesso vaghe: ed è, soprattutto, priva di un movente comprensibile. Mentre è invece visibile, indicato da segni precisi, il sentiero che portò l'inchiesta a scavare nel mondo della malavita, degli spacciatori di eroina: che poi, nella Milano di quegli anni, erano spesso fascisti o ex fascisti. Ma la pista venne seguita maldestramente, fin dall'inizio. Ne dà conto l'ordinanza del 2000 del giudice Clementina Forleo che archivia per l'ultima volta le indagini. Quando parla della presenza sul luogo del delitto di una Kawasaki verde intestata a un pregiudicato, il giudice scrive: «Non venivano svolte ulteriori indagini al riguardo». Che verso la malavita avesse senso scavare, lo dicevano testimonianza precise: e tutte provenienti dagli amici e dai parenti delle vittime. E tutti o quasi mettevano l'accento sul «Libro bianco dell'eroina», il dossier con nomi e cognomi degli spacciatori preparato in quel periodo dal «Leoncavallo». Celina, amica di Fausto, racconta che Iaio stava lavorando al dossier e che per questo era stato affrontato a brutto muso in un bar da un certo Franjo («stai attento»). Il parroco del Casoretto dice di avere ricevuto una telefonata in cui una donna fa nome e cognome di uno spacciatore che dopo il delitto dice «quei due finalmente non parleranno più».
E poi c'è il fatto più eclatante, il tipo col cappello di lana pestato una settimana prima al Parco Lambro da venti giovani con i fazzoletti rossi sul volto e le chiavi inglesi, che lo accusano di essere «un fascista e uno spacciatore di droga».Serviva altro, per convincersi che di tutte le spiegazioni possibili fosse questa la più solida? Eppure la traccia cruciale, il berretto di lana, sparì. Forse non sarebbe servito a nulla. Forse avrebbe raccontato tutto.
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