di Carlo Maria Lomartire
Ammettiamolo, fa bene al cuore vedere con quanta commozione, con quanta partecipazione i milanesi stanno dando l'ultimo saluto a Enzo Jannacci. Come avvenne per Giorgio Gaber, suo gemello degli esordi . Ed è giusto, ammettiamo anche questo, che Enzo trovi posto al Famedio, il luogo del ricordo di chi ha onorato Milano: perché certamente è lui l'ultimo autore e esecutore di canzoni sulla vita di Milano e in milanese autentico. Tutto giusto, anche tanta commozione, inevitabilmente retorica, esibita davanti a microfoni e telecamere dalla gente che andava a salutarlo per l'ultima volta. Tutto giusto tranne la «nostalgia», quella «nostalgia» continuamente manifestata per «la Milano che non c'è più». Quella no, quella è francamente insopportabile.
Si sa, la nostalgia è un sentimento ambiguo e pericoloso. In primo luogo perché, più tipico della maturità, come il doppiopetto, invecchia chi la «indossa», quindi sconsigliabile a chi per ragioni anagrafiche non ne ha diritto. Ma anche perché si riferisce a qualcosa che non solo non c'è più, ma che spesso non c'è neppure mai stato. C'è sempre, insomma, per ciascuno di noi una piccola, ma non per questo meno mitica, età dell'oro da rimpiangere. E così, nel caso di Jannacci, posso arrivare a condividere che si ricordino con tenerezza quei primi anni '60 dei suoi esordi, gli anni del boom economico, della 500, del jazz, di cui Milano era la capitale, al Santa Tecla o al Capolinea o al Motta di piazza Duomo, del rock 'n roll trionfante e dei Beatles al Vigorelli, della prima linea della metropolitana, e della Campionaria a metà aprile, di fatto l'unica fiera dell'anno nel vecchio quartiere espositivo, tradizionalmente inaugurata sotto la pioggia. Anni di un conquistato benessere gioioso e non colpevole, ma di cui i moralisti presto ci obbligheranno a pentirci e chiedere perdono. Ma quella era la Milano delle fabbriche, dell'Alfa Romeo al Portello, della Pirelli alla Bicocca, dell'Ansaldo a porta Genova, della nebbia in piazza San Babila, della neve che quando si posava scoprivi che era grigia a pois neri, senza alcuno si stracciasse le vesti per l'inquinamento. Era la città che non odiava le automobili e nella quale le pulsazioni e i flussi del traffico erano scanditi dai turni delle fabbriche.
Poi è arrivato il '68 e ha rovinato tutto, la rabbia e la paura hanno preso il posto della gioia e dell'ottimismo e Jannacci ha composto e cantato pezzi bellissimi anche negli anni '70, gli anni di piombo e di sangue, del terrorismo politico, di guerra civile strisciante, di inflazione a due cifre, di deindustrializzazione, occupazioni di fabbriche e università, un corteo ogni sabato nelle vie del centro con inevitabili scontri con la polizia; anni di quotidiane rapine alle banche e sequestri di persona, di milanesi normali che non uscivano la sera per paura mentre i più ricchi si trasferivano all'estero, di Dario Fo, già coautore con Enzo di tante belle canzoni nel più bel milanese dei nostri tempi, ora diventato profeta e vate della rivoluzione. Di tutto questo, dunque, dovremmo soffrire la perdita? No, grazie. Si rassegnino, anzi, i milanesi dalla nostalgia facile, quelli che rimpiangono «la Milano che non c'è più».
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