Molti cinefili certo ricorderanno il film di Steven Spielberg che raccontava la storia kafkiana di un uomo costretto a vivere per mesi in un terminal dedicato ai voli internazionali, senza possibilità di varcare la frontiera. Un mondo parallelo e sorprendente, quello di un grande aeroporto occidentale, che due registi milanesi hanno voluto fotografare proprio allombra della Madonnina, nello scalo di Malpensa che in questi anni è stato al centro di discussioni e ripensamenti. E «Il Castello» di Massimo DAnolfi e Martina Parenti, documentario che dopo numerosi premi a festival internazionali verrà presentato questa sera al cinema Mexico, mostra come a volte la realtà quotidiana possa inconsapevolmente superare la fiction in quanto a storie, personaggi e paradossi. Come il caso di M., una signora settantenne che da sei anni vive silenziosamente allinterno dellaeroporto. La telecamera dei due registi, che per dodici mesi hanno filmato la vita dello scalo milanese nel suo viavai quotidiano di uomini e merci, la riprendono mentre cucina del pollo su di un fornelletto elettrico, si trucca, si lava i capelli e si fa la messa in piega in una delle toilette degli Arrivi, si corica indenne in sala daspetto indenne ai controlli di sicurezza.
Una storia di ordinario vagabondaggio, direbbe qualcuno, che senza locchio dei registi sarebbe rimasta indifferente a quelluniverso di frontiera che quotidianamente incrocia distratte storie di viaggiatori con le attività istituzionali di chi è preposto a controllare tutto: la sicurezza degli uomini e delle merci che a quintali entrano ed escono dallaeroporto. Invece quella della signora M., raccontano i filmaker, è unassurda storia di protesta per un permesso negato tanti anni fa: tornare alle Mauritius, dove forse avrebbe sognato di trasferirsi. Così, la sua guerra alla burocrazia è diventata una sorta di sit-in quotidiano che trasforma un «non luogo» per eccellenza - per usare unespressione di Marc Augè - in una dimora in cui trascorrere il tempo nellattesa surreale dellultimo definitivo volo. La storia della signora M., nel film di DAnolfi e Parenti, è una storia muta, fatta di gesti, di sguardi e luci claustrofobiche, poichè «Il Castello» (ogni riferimento a Kafka è puramente casuale) «nasce come opera corale che non intende decifrare dati nè comporre tesi sociologiche, ma unicamente leggere la realtà che pervade questa sorta di laboratorio permanente in cui la burocrazia, le procedure e il controllo mettono a dura prova la libertà degli individui degli animali e delle merci che vi transitano». Un microcosmo raccontato attraverso quattro episodi corrispondenti alle quattro stagioni dellanno che riprendono flussi incessanti tra arrivi, partenze, controlli antidroga e antiesplosivo e ispezioni sanitarie alla fauna (viva o morta) che giunge quotidianamente alla frontiera da ogni angolo del pianeta. Così, alla storia surreale della signora M. si sovrappongono quelle di inconsapevoli personaggi finiti nelle maglie delle perquisizioni più sofisticate che, in particolare dopo l11 settembre, hanno trasformato gli aeroporti internazionali in una trappola tecnologica. E allora la «candid camera» dei registi, inevitabile faglia nella privacy di controllori e controllati, scruta lo sguardo smarrito del paraguaiano Diego sottoposto alla radiografia che svelerà gli ovuli di cocaina nascosti nel suo stomaco. Ma si soffermerà anche sugli scatoloni da cui fuoriescono le chele delle migliaia di astici vivi che sbarcano dal Canada e dal Nordafrica.
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