Una città nel mirino della follia integralista

«Bisogna colpire Milano perché è la città di quel cane di Berlusconi». Sarebbe semplicistico spiegare solo così la rabbia che spinge i militanti - e i semplici, spaiati fanatici - dell’estremismo islamico a vedere nel capoluogo lombardo il bersaglio ideale per i loro attentati. Certo, Milano è la città del Cavaliere, del grande alleato del «cane Bush» nella guerra in Irak. E che questo rendesse Milano il bersaglio numero uno dei terroristi islamici in Italia lo dicevano chiaramente le intercettazioni finite sui giornali in occasione dell’impresa criminale che è la vera antesignana del botto di ieri mattina: l’attacco al McDonald’s di Brescia compiuto nel marzo 2004 da Mostafà Chaouki, un tunisino senza arte né parte tanto quanto Mohamed Game, l’assaltatore della Perrucchetti. Un altro cane sciolto, un disperato dell’immigrazione più che della jihad, eppure arrivato a un passo dal fare un massacro seguendo gli appelli all’odio della propaganda di Al Qaida.
Fu in quel contesto che emersero le intercettazioni - riscontrate dai verbali di alcuni pentiti - che parlavano di attentati destinati a colpire Milano, in particolare il Duomo e la metropolitana. Negli stessi atti, più di una fonte indicava la «colpa» della nostra città: essere la città di Berlusconi, del leader che più di tutti - agli occhi dell’estremismo islamico - incarna in Italia l’«asse del male». Ma c’è anche altro a spiegare la sgradevole preferenza accordata a Milano. È qui che gli emuli di Osama vogliono colpire. Anche se la cristianità ha in Roma il suo capoluogo mondiale, anche se è a Roma che ha sede il governo italiano, i progetti - che per la prima volta ieri mattina prendono corpo - di attentati jihadisti hanno quasi sempre per obiettivo Milano. Perché?
La verità è che è qui, sotto la Madonnina, che si è combattuta la battaglia decisiva tra infiltrazioni terroriste e Stato. È a Milano che il partito della guerra santa invia da sempre i suoi predicatori più validi: prima Anwar Shaban, l’imam che in viale Jenner reclutava guerriglieri, spedito qui all'inizio degli anni Novanta (ben prima dell’era Berlusconi) e che morì combattendo in Bosnia; poi Abu Omar, l’imam della moschea radicale di via Quaranta, quello che la Cia rapì senza tanti complimenti e trasferì nelle carceri egiziane; infine Abu Imad, che prese il posto di Anwar Shaban in viale Jenner e che proseguì nella sua opera di indottrinamento e di reclutamento (anche se negli ultimi tempi, sostiene la Digos, si è dato una calmata).
Segno che Milano è cruciale per la propaganda jihadista: qui ci sono i potenziali militanti, qui i soldi da raccogliere per finanziare la guerra santa. Difficilmente la rete commerciale - dai phone center alle macellerie halal - che gli estremisti taglieggiano per raccogliere fondi produrrebbe - in un’altra città - simili risultati. Ma Milano è anche stata la città dove la risposta dello Stato è stata più organizzata e più dura, dove si sono fatti più arresti, più processi, più condanne. Qui si celebra il primo grande processo per terrorismo internazionale, con le assoluzioni pronunciate da Clementina Forleo che vengono poi ribaltate in appello. Qui, insomma, la guerra tra lo Stato italiano e gli uomini dell’odio islamico ha da quindici anni la sua capitale.

È questo - più ancora di essere la città «del cane Berlusconi» - che ne fa il bersaglio quasi automatico di chi vuole fare sentire la voce del terrore. Da tempo, ormai, gli uomini più avveduti dell’antiterrorismo temevano che le minacce si trasformassero in fatti. Di fronte a questi timori, il maldestro sacrificio di Mohamed Game è stato quasi consolatorio.

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