Il ricorso del Comune doveva essere accolto, costasse quel che costasse. Questo è il quadro che emerge dall'indagine che la Procura di Milano ha condotto contro Adriano Leo, il presidente della terza sezione del Tar della Lombardia, che il 21 maggio 2013 pronunciò la sentenza sull'aumento di capitale di Sea, voluto da Palazzo Marino per evitare il crac di Sea Handling. Il giudice Leo verrà processato a partire dal prossimo 3 novembre, imputato di falso ideologico per avere depositato una sentenza diversa da quella decisa quel giorno in camera di consiglio. La sentenza di Leo sospendeva, diversamente da quanto stabilito con i giudici a latere, l'efficacia del provvedimento europeo che qualificava come «aiuti di Stato», e quindi illeciti, i 360 milioni finiti nelle casse di Sea.
Che Leo abbia stravolto quanto stabilito in camera di consiglio, per la Procura ormai è dimostrato dalle testimonianze di Silvana Bini e Fabrizio Fornataro, i due giudici che facevano parte con lui del collegio. Ma le stranezze, dicono le carte dell'indagine, non iniziano il 21 maggio ma quindici giorni prima, quando il ricorso firmato dall'Avvocatura Comunale, su delibera della Giunta municipale, arriva alla cancelleria del Tar. Perchè Leo si impadronisce della pratica, in modo da essere sicuro non solo di partecipare all'udienza, ma anche di scrivere la sentenza. A dirlo, davanti al Consiglio di presidenza della giustizia amministrava, che apre una indagine interna sulla vicenda, è il giudice Fornataro. Un consigliere gli chiede se «accada di frequente che il pres.Leo assegni i ricorsi a se stesso in qualità di relatore». Risposta: «Trattasi di fatto del tutto eccezionale». E la sua collega Silvana Bini: «Il presidente Leo si è assegnato detto ricorso senza avere seguito l'ordine di estrazione».
Perchè Leo teneva così tanto a gestire personalmente l'affare Sea Handling? É questo l'interrogativo di fondo che grava sull'intera vicenda. Interrogato a sua volta nell'ambito dell'inchiesta interna, Leo si è limitato a dire che la faccenda Sea era «particolarmente delicata», e per questo, nell'ambito dei suoi poteri, decise di occuparsene in prima persona. Ma è difficile non mettere in relazione l'autoassegnazione del fascicolo con quanto accadde poi il 21 maggio, quando si tennero l'udienza e poi la camera di consiglio. Dove, spiegano la Bisi e Fornataro al Consiglio di presidenza il 12 settembre 2013, Leo «si è presentato con una bozza di ordinanza già predisposta». É il famoso «brogliaccio», il foglio manoscritto in cui, prima ancora che si tenesse l'udienza, il giudice aveva scritto la sua decisione. Nel suo verbale di interrogatorio davanti al pm milanese Roberto Pellicano, il giudice Fornataro ha manifestato esplicitamente il sospetto più clamoroso, ovvero che Leo non fosse l'autore del brogliaccio. Il giudice insomma non si sarebbe limitato a impadronirsi del caso, a deciderlo scavalcando i colleghi e a falsificare il dispositivo della sentenza. Ma si sarebbe fatto scrivere addirittura la sentenza da qualcun altro. Dentro o fuori il tribunale?
Sta di fatto, che per cercare (senza riuscirci) di convincere i suoi colleghi, Leo non lesinò energie nè voce.
Il suo capo, Francesco Mariuzzo, dopo avere premesso che Leo ha una «gestione autoritaria» delle udienze e che «in generale risulta non sufficientemente preparato sullo studio dei ricorsi» racconta che il giorno dell'udienza Sea «la camera di consiglio è risultata molto difficoltosa e tutti gli avvocati che assistevano al di fuori hanno ascoltato le urla del collegio».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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