Per quanto ci si sforzi di deprimerla e di metterle i bastoni tra le ruote, è sempre lei: la città che non sta stare ferma, che accoglie chiunque voglia rimboccarsi le maniche, e dove tra immigrato e businessman la strada è ripida ma lineare come quella che una volta portava gli orfani dei Martinitt a divenire capitani di industria. È la Milano che solo pochi ultrà hanno il coraggio di definire bella, ma che comunque si prende un sette in pagella. E, di questi tempi, scusate se è poco.
«Milano Produttiva», con buona pace dei romani che per questa inclinazione ci sfottono da secoli, è il nome del premio che la Camera di Commercio assegna ieri a uomini qualunque, a imprese, a manager. Ed è, in sostanza, l'autobiografia di una metropoli. A raccontare la città si incrociano i curriculum dei premiati, dall'assicuratore con tre cognomi Galateri di Genola al tassista etiopeAlemu Abiye; storie d'amore per il proprio posto come quelle dei milanesi che hanno lavorato tutta la vita nella stessa ditta; e insieme alle storie di vita e di cartellini timbrati, c'è un sondaggio insolitamente dettagliato su usi, costumi e sentimenti di chi vive all'ombra della Madonnina.
Laddove si ha la conferma che, come se abitassero a Vigevano, i milanesi gravitano irresistibilmente sullo struscio nella piazza principale. Che in discoteca ci va un decimo dei milanesi che bazzicano mostre e musei. Che, con buona pace di Cesar Pelli e dei suoi colleghi, solo uno striminzito 1,2 per cento considera Milano la città «dell'architettura moderna». Che il volontariato e l'aiuto agli ultimi sono un'abitudine di nicchia (4% e 1,2%). E che tutti, o quasi, se devono indicare dove stia l'anima vera della città finiscono inesorabilmente a parlare del lavoro, orgoglio ma anche ossessione di una comunità che, anche in tempi di crisi, dichiara di essere turbata più dalla mancanza di tempo che dalle preoccupazioni economiche (anche se è una vittoria di misura: il 48,8 contro il 40,6).
Storie di Milano e storie di lavoro. Andrebbero forse raccontate una per una quelle dei 146 uomini e donne premiati per avere lavorato venticinque anni di fila nella stessa ditta: mentre il mondo fuori cambiava e la precarietà diveniva regola, loro non hanno mai dovuto nè voluto cercarsi un altro posto. E potrebbe occupare un libro la saga dei Ceretti della Editrice Giochi, con il fondatore Emilio che importa dall'America il Monopoly e lo italianizza nel nome e nelle vie, mischiando indirizzi di fantasia come il Parco della Vittoria o Vicolo Stretto a pezzi di toponomastica milanese come via dei Giardini o viale Traiano. E così pure le cento storie di imballaggi e lampadine, di porte su misura e tubi flessibili, nel catalogo quasi sterminato in cui la passione per il fare e l'istinto per i danè si sono concretizzati all'ombra del Duomo.
I milanesi, dice il sondaggio, sono scontenti dei loro ritmi, e vorrebbero forse qualche volta fermarsi a tirare il fiato. Ma sarà davvero così? O a fare grande la città è in fondo il suo non sapersi fermare? Che il suo rito più condiviso sia l'aperitivo serale, oggi come negli anni Cinquanta, la dice lunga sulla mancanza di fantasia: che a qualcuno può dare ai nervi, e a volte magari con ragione. Ma che è l'ingrediente base della ricetta che porta qui gente da tutto il mondo.
Come lei, Maria Karanica, una delle premiate di ieri: che oggi ha sessantasei anni, ma qui è sbarcata dalla Grecia, fresca di liceo, nel 1968, per studiare scienze politiche, e non ha più voluto andarsene, prima impiantando l'ente ellenico per il
turismo, poi aprendo il quartier generale di quel colosso mondiale degli abiti da sposa che è Demetrios. E se chiedi a Maria di dare lei, in una sola parola, la definizione di Milano risponde senza incertezze: «Organizzata».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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