Dalle urne uno schiaffo alle toghe

Dalle urne uno schiaffo alle toghe

In America lo chiamano effetto Teflon: il bruciato non si attacca alla padella. La stessa cosa è accaduta con le inchieste giudiziarie piovute a raffica sul Pirellone. Una geometrica potenza di avvisi di garanzia che nelle speranze dell'opposizione avrebbero dovuto segnare la fine catastrofica del regno del centrodestra in Lombardia. E che invece sono scivolate via senza lasciare tracce decisive. Certo, una parte dell'erosione dei consensi alla coalizione Pdl-Lega rispetto alle regionali di tre anni fa ha radice nelle accuse di corruzione lanciate dalla Procura. Ma il risultato finale non cambia: gli elettori lombardi non hanno preso come indicazioni di voto le notizie delle cronache giudiziarie.
Eppure a partire dalla primavera dell'anno scorso il martellamento era stato costante, ed era arrivato a ritmi ancora più intensi a ridosso del voto. Uno dopo l'altro, gli appartenenti all'ufficio di presidenza della Regione venivano arrestati - come Massimo Ponzoni e Franco Nicoli Cristiani - o incriminati, mentre le indagini puntavano sotto traccia alla preda più ambita, il governatore Formigoni. Tutti i passi in avanti delle inchieste sulla sanità finivano in diretta sulle pagine dei giornali, tappe progressive della marcia di avvicinamento all'inquilino di Palazzo Lombardia. Fino alla «botta», l'iscrizione nel registro degli indagati di Formigoni per corruzione per l'indagine sulla sanità, che finisce (suscitando le ire del diretto interessato) in prima pagina sul Corriere il 24 giugno. Già allora, per l'opposizione, la partita andava considerata chiusa: dimissioni immediate, e un voto popolare che sancisse la fine del «sistema». Ma Formigoni non si dimette. Ci vuole l'arresto per associazione mafiosa dell'assessore Domenico Zambetti, il 10 ottobre, per convincere il governatore ad azzerare la sua giunta aprendo la strada alle elezioni anticipate.
Ma la resa non ferma l'ondata delle inchieste. In dicembre i gruppi consiliari di Pdl e Lega vengono investiti quasi per intero dalle indagini sui rimborsi spese. Le opposizioni festeggiano (ma poi arriverà anche il loro turno). Il 23 gennaio trapela il contenuto di una relazione ancora segreta sui conti esteri della Lega. Il 26 gennaio anche la seconda iscrizione di Formigoni nel registro degli indagati, stavolta per il San Raffaele, approda in prima pagina. Il 28 gennaio, dalle carte della stessa inchiesta trapela il contenuto dell'interrogatorio di un funzionario della Regione divenuto teste della Procura.
Fino al gran finale, che arriva a ridosso del voto. Il 5 febbraio il Consiglio superiore della magistratura ha invitato i pm a darsi una calmata per non interferire con le elezioni. A Milano, in Procura, si discute a lungo: dare retta al Csm e rinviare tutto all'indomani delle elezioni? Alla fine prevale la linea dura.

Alle 18,30 del 12 febbraio, con le schede elettorali già stampate, il procuratore Edmondo Bruti Liberati convoca i cronisti e annuncia che l'indagine sul San Raffaele è terminata e Formigoni è accusato di essere il «capo o promotore» di una associazione a delinquere che si era impadronita della Regione. Da quel momento, e fino all'apertura dei seggi, uno stillicidio di documenti dell'inchiesta finisce quotidianamente in pagina. É la fine di un sistema, dicono i giornali. Poi, però, si vota.

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