«Ecco perché la riforma nasce su basi illegittime»

È un progetto demagogico di mantenimento costituzionale (scritto dal Pd)

di Stefano Bruno Galli*Dall'inizio di questa legislatura regionale, il Consiglio lombardo si è occupato a più riprese di riforme costituzionali. Questa seduta è arrivata un po' fuori tempo massimo: la versione definitiva della Riforma, approvata dalla Camera, da oggi torna al Senato per il secondo passaggio.È sufficiente leggere il titolo della Riforma per rendersi conto di quanto sia demagogico il progetto di manutenzione costituzionale. Superamento del bicameralismo paritario, riduzione dei parlamentari, contenimento dei costi delle istituzioni, soppressione del Cnel, revisione del Titolo V. Nella previsione di un referendum confermativo, il Governo ha concepito il titolo per affrontare le urne. Ma la storia ci insegna che gli scandali e le crisi economiche e sociali non possono essere alla base delle riforme. Le riforme si fanno, semplicemente, perché si devono fare, non per rispondere agli umori dell'opinione pubblica.Si tratta di un progetto uscito dalla direzione nazionale del Pd, semplicemente «ratificato» dal Governo e infine discusso da un Parlamento assolutamente non titolare del «potere costituente», vale a dire della prerogativa esclusiva di mettere le mani nella Costituzione, perché è un Parlamento politicamente delegittimato per effetto di una sentenza della Corte costituzionale che ha giudicato incostituzionale la legge elettorale attraverso la quale è stato eletto. Questa genesi della riforma è un oltraggio alla teoria e alla prassi del costituzionalismo; un oltraggio alla democrazia praticata.Il disegno di riforma contiene un vero e proprio «strappo» rispetto all'articolo 5 della Costituzione, che iscrive tra i principi fondamentali della Repubblica quelli dell'autonomia e del decentramento. Nei fatti, il regionalismo non ha funzionato perché l'attribuzione di nuove competenze al sistema regionale è avvenuto, nel corso degli anni, su un impianto fortemente centralista. Con la nascita delle Regioni e l'attribuzione a esse nel tempo di funzioni sempre più ampie, non si è regionalizzato lo Stato centrale e neppure il sistema dei partiti, veri detentori del potere politico. Qui si trova il motivo del fallimento del regionalismo, che ha funzionato poco e male sin dall'inizio, cioè dal 1970. Ma se il giudizio deve essere severo per il più vasto numero delle regioni, ciò non è vero per la Lombardia che è assai più virtuosa di Roma. L'articolo 5 della Costituzione ci dice che l'autonomia si configura anche come un diritto inalienabile del cittadino-elettore. Vi è un sacrosanto diritto del cittadino all'autonomia che con questa riforma, e con la legge Delrio sulla soppressione delle province, viene calpestato e deriso. Il Senato e le Province sono organi costituzionali. Sono dunque elementi che definiscono non solo l'articolazione istituzionale dello Stato, ma anche la pratica della democrazia; e, nel caso del Senato, esercitano pure delle (modeste) funzioni legislative. Per tale ragione è improprio trasformarli in enti non eletti direttamente da parte dei cittadini.

Un Senato non eletto e ridotto a un centinaio di membri viene contrapposto a una Camera che rimane di 630 deputati, eletti con una legge elettorale che assegna un premio di maggioranza alla lista vincente al ballottaggio, magari con poco più del venti per cento, e che, con i capilista bloccati, sarà in maggioranza un'assemblea di cooptati: è questo il futuro della democrazia italiana? Rispetto a una Camera-moloch e a un premierato forte e ipertrofico, esito di un ballottaggio che ricorda tanto il semipresidenzialismo, ci vuole ci vorrebbe un contrappeso autenticamente federale; un contrappeso che non è assolutamente rappresentato dal Senato delle autonomie concepito dalla Riforma, con le Regioni praticamente commissariate, deprivate delle loro prerogative di autonomia politica e amministrativa.*capogruppo Lista Maroni presidente

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