La prova principale della innocenza di Beppe Sala, secondo la Corte d'appello, è la sua intelligenza. Se avesse fatto davvero qualche pasticcio sull'appalto per il verde di Expo non sarebbe stato così ingenuo da disporre lui stesso una indagine interna e mandarne poi i risultati in Procura: col risultato di ritrovarsi incriminato.
«Che un uomo delle capacità manageriali e dell'esperienza professionali di Giuseppe Sala - si legge - abbia potuto compiere un simile e inspiegabile passo falso è un'ipotesi assolutamente incredibile, salvo prospettare che egli abbia agito in modo di precostituirsi un alibi e fugare ogni dubbio sulla legittimità della propria condotta». Ma l'ipotesi di una astuzia tanto diabolica è «sfornita del benché minimo supporto probatorio». «L'unica spiegazione logicamente credibile del comportamento di Sala è dunque che egli abbia agito in buona fede confidando nella legittimità del proprio operato».
Sono passaggi delle motivazioni, depositate ieri, della sentenza che il 25 gennaio confermò l'assoluzione del sindaco dall'accusa di abuso d'ufficio per le «forniture arboree» di Expo, assegnate senza gara alla Mantovani a un prezzo decisamente generoso. La Corte presieduta da Guido Piffer non contesta che gli alberi e le piante costarono un po' troppo, ma dice che «non c'è nessun elemento utile dal quale desumere la consapevolezza da parte del dottor Sala della diseconomicità del prezzo della fornitura»; e l'assegnazione senza gara rientrava pienamente nei poteri straordinari del commissario unico di Expo.
È la seconda sconfitta consecutiva per la Procura generale, che per portare Sala sul banco degli imputati aveva avocato a sé l'indagine, e che anche in appello si vede smontare le sue accuse pezzo per pezzo. En passant, la Corte spiega che in realtà un elemento «di ben altra rilevanza probatoria» nelle carte c'era, ma la Procura generale non se n'è occupata: la testimonianza di Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, secondo cui Sala si era messo d'accordo con la Mantovani per superpagare la fornitura, e compensarla così dei prezzi tirati dell'appalto principale. Rognoni, come ricorda la sentenza, disse: «Sono stato testimone del fatto che Sala ha intrattenuto rapporti con il figlio di Chiarotto e con il presidente Mantovani, in cui Sala gli ripeteva che in questo contesto l'unica cosa che non manca sono i soldi facendo chiaramente intendere che vi era disponibilità da parte della stazione appaltante a liberare risorse in favore del appaltatore». Ma l'ipotesi è rimasta «priva del benché minimo supporto probatorio».
Con la sentenza di ieri per Sala si chiude definitivamente (a meno che la procura generale ricorra in Cassazione, ma appare improbabile) la vicenda giudiziaria legata al verde di Expo.
Il primo cittadino resta sotto processo per l'altra accusa, la retrodatazione del verbale di nomina della commissione aggiudicatrice dell'appalto per la piastra. Qui ormai siamo alle battute finali. Ieri in aula è stato interrogato Angelo Paris, ex manager di Expo, anche lui come il sindaco imputato di falso in atto pubblico: «Quando venne firmato l'atto non ero presente», ha spiegato ai giudici.
Ma l'udienza clou sarà quella del 15 aprile, quando a dover offrire al tribunale la sua verità sarà Beppe Sala. Su quel verbale la firma del sindaco c'è. Riuscirà a convincere i giudici di averlo fatto a fin di bene, solo per finire in tempo i lavori, e senza danneggiare nessuno?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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