Il "fronte" anti boss dalla Platì del Nord agli appalti di Expo

Nacque 25 anni fa. Il «la» da tre commissari della Mobile

Il "fronte" anti boss dalla Platì del Nord agli appalti di Expo

C'era una volta un sogno chiamato Fbi: una struttura all'avanguardia nella lotta al crimine organizzato, nella quale tutte le forze di polizia - superando ataviche rivalità - facessero confluire il meglio dei loro uomini e delle loro conoscenze. Solo in quel modo, davanti a un nemico in continua evoluzione, si poteva tenere il passo. La Dia nacque così, venticinque anni fa. Si capì subito che non sarebbero state rose e fiori. Perché la Guardia di finanza non voleva rinunciare al suo Gico, i carabinieri si tenevano stretti i Ros, e la polizia si guardava bene dal depotenziare la Criminalpol. Come ammesso ieri dal procuratore nazionale Franco Roberti, anche la messa in comune delle informazioni tra le diverse forze e la Dia rimase sulla carta.

Eppure, nonostante questi immortali campanilismi, la storia della Dia milanese si è intrecciata in profondità con la storia dell'eterno contrasto tra legalità e crimine organizzato: fin dai tempi eroici e un po' ruspanti della prima sede in piazza Missori, un ufficio improvvisato dove più della mancanza delle fotocopiatrici pesava l'incertezza normativa, figlia di un decreto istitutivo troppo timido. Ma quello che contava era che Milano fosse stata scelta come terra di frontiera, la prima grande città dove piazzare un avamposto della nuova struttura: una scelta non scontata, in una città dove il procuratore generale metteva in dubbio l'esistenza della mafia. E contò anche la scelta convinta di uomini delle tre forze di lanciarsi nella nuova avventura con entusiasmo.

A dare il la ai trasferimenti furono tre giovani commissari, che in questura all'epoca erano l'ossatura portante della Squadra Mobile: il capo della Squadra Omicidi Guido Marino, il suo vice Francesco Messina e il capo della Narcotici Massimo Mazza. Dalla Criminalpol arrivò Carmine Gallo, col suo bagaglio impareggiabile di confidenti. La sensazione era che davvero, in quei mesi, la linea del fronte passasse da lì: prima nell'accampamento di piazza Missori, poi nella sede definitiva, il grande palazzo di via Mauro Macchi. E la conferma si ebbe poco dopo: perché dalla Criminalpol, l'ispettore Gallo si era portato il primo grande pentito della 'ndrangheta al nord, un picciotto di Platì con gli occhi un po' basedoviani arrivato in calzoni corti a Buccinasco, e da lì salito a suo di ammazzamenti nelle gerarchie criminali. La notte tra il 13 e 14 ottobre 1993 dagli uffici di via Mauro Macchi partì la gigantesca retata Nord Sud: finirono in galera boss e gregari di Corsico e Buccinasco, «la Platì del nord» e vennero scoperchiati i rapporti con il mondo della giustizia e della politica. Da allora, e a lungo, la gestione dei pentiti e delle loro rivelazioni fu il core business dela Dia milanese: come quando Salvatore Annacondia detto Manomozza permise di dare nome e manette ai responsabili della ultima guerra di mala vissuta dalla città, quella tra i napoletani del clan Batti e i calabresi di Pepè Flachi e Franco Coco.

Non tutti gli anni che seguirono furono all'altezza di quelli ruggenti del debutto. Ma la Dia milanese ha saputo reinventarsi, focalizzandosi sempre di più sul vero volto inesplorato del crimine a Milano: i flussi finanziari, i patrimoni nascosti o inspiegabili. Qualche buona retata ogni tanto ci scappa ancora: ne sa qualcosa Pepè Onorato, il vecchio boss che l'indagine Metallica spostò dal suo «ufficio» in un bar di via Porpora a una cella di Opera.

Ma il vero terreno per i settanta segugi della Dia è oggi quello della prevenzione, che non è un soggetto un po' astratto ma indagine vera, che permette di espellere sena troppe garanzie dal mondo delle imprese e degli appalti chi manda odore di crimine organizzato. Se gli appetiti dei clan su Expo si sono fermati ai cancelli, bisogna ringraziare la Dia. E anche nella nuova sede al Cordusio il lavoro su questo fronte non mancherà.

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