S ono le due del mattino e mi trovo in un cunicolo traboccante di materiale marcescente, infestato da ragni grossi come tacchini a non so quanti metri sotto Milano. Stiamo avanzando verso chissà dove. La mia guida, pochi metri davanti a me, sta strisciando metro dopo metro lungo una galleria immersa nel buio. Roba vecchia di secoli. Io e suo fratello gli stiamo dietro confidando nel suo senso dell'orientamento.
All'inizio la proposta di Gianluca Padovan mi suonò come pure follia, ma anche come l'occasione per dare uno schiaffo alla stagnante quanto ammorbante routine della vita di tutti i giorni. «Credo di aver ritrovato l'Ultima Cena più antica che esista a Milano» mi aveva detto al telefono. Gianluca Padovan, classe 1959, era il presidente dell'Associazione Speleologia Cavità Artificiali di Milano, un manipolo di appassionati speleologi che non si erano ancora arresi alla logica della Milano da bere o peggio da cementificare. Il loro credo era esplorare, documentare e preservare il patrimonio sotterraneo milanese. Anche a costo di beccarsi una denuncia.
Avevo fatto la loro conoscenza in commissariato durante uno di quegli spiacevoli malintesi che a volte si creano con le forze dell'ordine che tra l'altro l'ordine lo mantengono a fatica. Il sottoscritto, Leonardo Fiorentini, mercante d'arte milanese, con un'insolita tendenza a cacciarsi nei guai, era appena stato fermato per porto abusivo d'arma. Tra una vendita di un quadro e un articolo per il Secolo d'Italia, trovavo il tempo per improvvisarmi investigatore privato. L'avere con me un'arma, seppur datata come una Colt 1911, era una questione di credibilità sia verso i mie clienti che contro i malintenzionati. E vi assicuro che questi ultimi di fronte al mio gingillo difficilmente mettevano in dubbio le mie intenzioni.
Dunque alla proposta di Padovan avevo risposto prontamente. Ci eravamo visti una sera del mese scorso al caffè Viarenna di piazza XXIV Maggio a Milano per una pizza. Padovan, più esperto di una pantegana, mi aveva portato nel dopo cena nei pressi della chiesa di S. Eustorgio. Conoscendolo, non avevo temuto di appartarmi con lui all'ombra di una chiesa in una sera d'estate. La sua virilità era conclamata e certa. «Quello che cerchiamo è qui sotto», mi aveva detto facendomi volare con la fantasia. In quel momento avrei voluto avere la vista ai raggi X di Superman per vedere sotto i nostri piedi dove più che qualche tombino e lastroni di pietra non vedevo. «Se solo potessimo alzare questo tombino, forse potremmo arrivare vicini al luogo in cui si trova il mosaico», aveva aggiunto guardandosi in giro con fare circospetto. La città era pressochè deserta, annegata in un diluvio torrenziale che evocava atmosfere da diluvio universale.
Avevo rimpianto di non avere con noi l'arca del defunto Noè o in alternativa un più modesto canotto. Da lì avevamo raggiunto piazza General Cantore, facendo lo slalom tra le auto che sfrecciavano come al gran premio di Montecarlo e i punkubestia ubriachi che ci offrivano ogni genere di droga. Come sempre avevo avuto la tentazione di offrir loro, declinando la loro gentile offerta, una dose massiccia di piombo. Eravamo poi scesi verso la vecchia Darsena, luogo dal quale avremmo raggiunto le catacombe di S. Eustorgio alla ricerca del mosaico: si trattava dell'imbocco del canale coperto dell'Olona. Percorreremo un tratto del canale, poi prenderemo la galleria che immette direttamente nel sistema fognario. «Con un po' di fortuna raggiungeremo le catacombe sotto il Parco delle Basiliche», mi aveva illustrato scambiandomi per un novello Indiana Jones. Sono passati pochi giorni e questa sera, a mezzanotte, siamo entrati in azione. Io, lui e suo fratello Davide, un ex ufficiale degli Alpini, con la passione per il sottosuolo e per le arti marziali. Ci siamo agghindati con tute da speleologia, caschi, maschere antigas e stivali che ci arrivavano in vita. I senzatetto che bivaccano ai lati della Darsena in ricoveri di fortuna ci hanno scambiato per dei mostri partoriti da qualche palude radioattiva.
Ci siamo mossi avanzando nella melma traboccante di rifiuti, sentendo i nostri piedi sprofondare passo dopo passo. In breve l'oscurità del canale ci ha inghiottito. Abbiamo camminato lungo un paesaggio surreale, fatto di fango, bottiglie di vetro, copertoni di vecchie auto, computer, vinili. Il tutto amalgamato con fetidi fanghi stagnanti. La situazione è migliorata quando ci siamo infilati nella galleria laterale che porta ai condotti fognari. Qui le gallerie, benchè più piccole, sono percorse da flussi di acqua corrente. Anche i topi preferiscono di gran lunga queste ultime. I fasci di luce delle nostre torce ne illuminano di continuo alcuni decisamente pasciuti e dall'aria ben poco amichevole.
Dal davanti mi giungono le colorite imprecazioni di Gianluca a cui fanno eco quelle di Davide che mi segue. Dopo circa due ore di un percorso degno di un girone infernale, eccomi ora a strisciare in quella che certamente fu una catacomba in tempi che non oso immaginare. Le ossa ammassate ancora nei loculi non lasciano dubbi. Una parte di me vorrebbe poter tornare fuori, respirare all'aperto e dimenticare per sempre questi meandri asfittici che una fantasia suggestionabile avrebbe già popolato di fantasmi e presenze. L'altra parte di me invece è ostinata e non demorde. Se c'è anche una sola possibilità di recuperare quel mosaico straordinario, mi chiedo: «perché rinunciarci?». Peccato che a volte la tenacia dei singoli sia destinata a scontrasi contro l'ottusità dei molti.
Arriviamo in un corridoio dove le pareti antiche si mescolano al cemento armato colato non più di vent'anni fa. Le luci montate sui nostri caschi illuminano tracce di un mosaico del IV secolo che un tempo doveva essere stato bellissimo. Rimaniamo in estasi di fronte al capolavoro perduto. Perduto perché completamente incastonato in una solida cortina di cemento.
Sono le quattro del mattino e tra poco Milano si sveglierà, continuando a ignorare il suo volto sotterraneo vecchio di secoli.
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