Il televisore compì una parabola perfetta prima di schiantarsi sul tettuccio dell'utilitaria francese. I poliziotti, schierati sotto al palazzo in via Washington, si allontanarono di corsa per paura di finire schiacciati. Enrico Radeschi assistette alla scena immobile, seduto sulla sella del «Giallone», la sua vespa cinquanta, classe 1974, dipinta a bomboletta. Si era appena acceso la prima arrotolata di Amsterdammer della giornata e niente al mondo avrebbe potuto distrarlo. Quello era il suo momento di relax per cominciare bene la giornata. Una parentesi che ritagliava nella sua vita da segugio di nera, pagato a cottimo per raccontare il male. In genere era il burbero caporedattore Beppe Calzolari a spedirlo a ogni ora del giorno e della notte sul luogo della disgrazia. Quel mattino, tuttavia, l'imbeccata era arrivata da Diego Fuster. Diego, vent'anni, studente di giornalismo e una gran passione per la nera, era per lui una sorta di aiutante. In quei giorni era costretto a letto per l'orchite: un catetere maledetto l'aveva ridotto così; una scarica di cortisonici, cui si sottoponeva stoicamente, avrebbe rimesso in ordine le cose. Almeno ci sperava. Nel frattempo, trascorreva le giornate chiuso nel suo monolocale, combattendo il gonfiore col ghiaccio e ascoltando le voci gracchianti sulle frequenze degli sbirri. All'alba era così venuto a conoscenza del fatto. Senza esitazione aveva tirato Radeschi giù dal letto.
«Se mi hai svegliato per una cazzata rischi il collo, dato che il resto ormai è andato... », grugnì.
Diego era subito venuto al punto: un marito geloso aveva deciso di mettere una pietra sopra al proprio matrimonio. Meglio: una pietra tombale sulla moglie. La defunta si sollazzava col vicino e lui, scoprendolo, non aveva gradito. Rientrato in anticipo dal lavoro per un guasto all'auto - lavorava come guardia giurata in provincia di Milano - li aveva sorpresi a letto. L'amante era schizzato via come una lepre mentre l'uomo aveva sparato alla donna con la pistola d'ordinanza. Poi si era precipitato in casa del vicino per chiudere il conto ma quello aveva già chiamato la polizia. Il lancio del televisore era stato un gesto dimostrativo per avvertire gli sbirri di starsene a cuccia.
Radeschi aspirò una lunga boccata di tabacco. Erano solo le sette del mattino ma già il caldo si faceva sentire in quello spicchio di marciapiede davanti alla sala «bingo». Schiacciò quel che restava dell'arrotolata sotto al tallone e si avvicinò al cordone della polizia. Individuò subito Loris Sebastiani, il suo amico vicequestore. Col sigaro spento a un angolo della bocca e lo sguardo teso. Dovevano aver tirato giù dal letto anche lui. Si salutarono con un'alzata di sopracciglia.
«Chi è l'ostaggio?».
«Un critico televisivo. Specializzato in film asiatici, a quanto pare... ».
In quel momento il sequestratore si affacciò alla finestra dell'ultimo piano tenendo la pistola puntata alla tempia dell'ostaggio.
«Lui!», iniziò a gridare indicando Radeschi «Voglio parlarci. Lo conosco. L'ho visto in tv, è quello che scrive sul giornale! Devo raccontargli come sono andate le cose: poi mi arrendo».
Sebastiani sollevò gli occhi al cielo. «E' contro tutte le regole e il buon senso. Tu però che ne dici?».
Radeschi scrollò le spalle: «Purché io abbia l'esclusiva della storia».
Il poliziotto annuì passandosi il sigaro da una parte dall'altra della bocca. «Vai e tienilo in chiacchiere: io lo farò sorprendere alle spalle attraverso la finestra. Intesi?»
Infilarono a Radeschi un giubbotto antiproiettile e lo accompagnarono davanti alla porta del critico. La serratura era stata distrutta da un paio di colpi di pistola.
«Andate via tutti», ordinò l'uxoricida da dentro. La polizia arretrò. Quando il giornalista penetrò nell'appartamento, l'uomo rimase spiazzato. «Che cazzo stai facendo?», gli gridò.
Radeschi non aveva perso tempo: aveva chiamato col suo telefono Umys Fuster e stava riprendendo la scena. L'assistente avrebbe poi messo tutto online su «MilanoNera», il loro sito. Un vero scoop.
«Spegni o l'ammazzo».
«Fai pure: io avrò un pezzo da prima pagina e tu finirai in gabbia»
«E a lui non ci pensi?», ribatté spingendo il ferro ancora più forte contro la tempia del prigioniero.
«Il mondo è pieno di critici. Uno in meno non sovvertirà l'ordine universale».
L'ostaggio, bianco come un cencio e muto fino a quel momento, ebbe un moto d'orgoglio. «Ma cosa dici? Io sono il biografo ufficiale di Kim Ki-duk, il regista coreano che ha fatto faville a Venezia qualche anno fa. "Real Fiction" vi dice nulla? E "Ferro 3"?».
«Cosa ti dicevo? Spara va'».
«Sicuro?»
«Solo un secondo che stringo l'inquadratura».
«Hey, dico, siete impazziti? Tu, giornalista, che cazzo gli dici?».
«Lo senti quant'è sboccato? Avanti, fallo fuori. Domani sarai sulla prima pagina di tutti i quotidiani. Gloria imperitura. In carcere riceverai vagonate di lettere di donne, come Vallanzasca. E poi, visto come vanno le cose, fra una decina d'anni sarai già fuori... ».
«Ma che ti salta in mente? Tu sei un maledetto pazzo!», sbottò l'ostaggio.
Radeschi sorrise. «I critici sono come gli eunuchi: sanno tutto su come si fa in teoria, ma non ci riescono. Così stanno sempre a starnazzare. Ti pare sensato?».
Il sequestratore sembrò rifletterci sopra, poi abbassò la pistola un istante per riposare il braccio. Subito il sibilo di un proiettile tagliò l'aria. Il sequestratore crollò a terra urlando, la mano destra spappolata. Un tiratore scelto sul tetto di fronte non si era lasciato sfuggire l'occasione. Il critico iniziò a piangere; i calzoni inzuppati di piscio. Sebastiani irruppe nell'appartamento insieme a un nugolo di uomini armati.
«Non dovevate coglierlo alle spalle?» domandò Radeschi.
«Se continuavi un altro minuto con le tue cazzate lo faceva secco.
Il giornalista sorrise, si sfilò l'antiproiettile e, senza fretta, si avviò giù per le scale. «Devo proprio vedermeli quei film coreani», sussurrò accendendosi un'altra arrotolata.
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