GIALLO milanese

Uccidere. Prima, pensi che sia impossibile. Poi, diventa routine. Quando cominciano a cercarti - non proprio te, ma un generico assassino - è troppo tardi. Hai imparato a mentire, camuffarti, nasconderti. E in più hai un vantaggio: tu sai quando e dove colpirai. Loro no.
La donna biondo cenere si specchiò un’ultima volta. Capelli ben pettinati, trucco leggero, quel filo di abbronzatura che dona sempre. Era plausibile che avesse gli anni dichiarati? Si serrò nelle spalle: viste le circostanze, inutile preoccuparsene troppo.
Tutto era cominciato sette anni prima. Sua moglie se n’era andata con un altro e lui si era arrabbiato parecchio. Un po’ fuori esercizio, aveva optato per il corteggiamento on line. Più facile selezionare, meno farsi coinvolgere. La prima con cui era uscito era una quarantenne grassa che gli aveva mandato una foto datata. Avevano fatto sesso nell’appartamento di lei. Poi l’aveva strozzata con la cinta dell'accappatoio. Era andato tutto liscio. La fortuna del principiante.
Nessuna relazione degna di questo nome negli ultimi quattordici anni. Ci sta, quando si lavora altrettante ore al giorno. Ma il tempo è impietoso: un giorno non sei più giovane, quello dopo la solitudine diventa definitiva. La donna si chiese se usare in extremis quel contorno occhi che prometteva miracoli. Poi desisté: aveva altre armi.
Qualche blando flirt poi, di nuovo, l’impulso di uccidere. Lei aveva 45 anni e la sua occupazione principale era dimostrarne dieci di meno. Aveva soldi e tempo per riuscirci, ma questo non cancellava i suoi demoni. In una sera, l’aveva affascinata, illusa, scopata, sgozzata. Se ne era andato dall’appartamento di lei, nella centrale via Ariosto, senza che nessuno avesse notato niente.
La donna bionda indossò un abitino color cipria e calzò sandali a tacco alto. Uscì sul balconcino, affacciato sulla popolare via Giambellino. Era il 23 agosto, sabato. Per tutto il giorno aveva fatto un caldo da piangere, ma a quell’ora, le nove e un quarto di sera, si tirava il fiato. Il quattordici le sfrecciò sotto il naso. Di prendere il tram vestita così neanche a parlarne. Rientrò per chiamare un taxi. Ma nessuno le rispondeva. E i minuti passavano.
Marco Mirafini, naturalmente quello non era il suo vero nome, imboccò rilassato corso di Porta Ticinese. Aveva capelli brizzolati, un’abbronzatura decisa e un completo in lino chiaro. Alle Colonne di San Lorenzo c’era il solito assembramento di giovani, che bevevano e parlavano al telefonino. Un paio di ragazze gli lanciarono occhiate d’interesse, che lui non ricambiò. Dopo la riccona di via Ariosto, ce ne erano state altre due. Solo a quel punto la polizia aveva pensato a un serial killer. Ma questo non li avrebbe aiutati a prenderlo. Lui non osservava rituali, non lanciava sfide, non commetteva errori. E, soprattutto, non voleva essere preso. Stette buono per un po’, poi ricominciò.
Dopo dieci minuti capì che un taxi non lo avrebbe trovato. Alle soglie delle nove e mezzo, cominciò ad agitarsi, benché non fosse nel suo carattere. Con la macchina in autofficina, le alternative scarseggiavano. Uscì in fretta, ascensore occupato, tre piani a piedi, apriporta, primo passo sul marciapiede, la fermata del tanto snobbato quattordici a due passi, quindi un rumore familiare. Il tram - in edizione jumbo: verde e con l’aria condizionata - frusciava in direzione centro. L’aveva perso per un pelo. Sbuffò.
Sulle autostrade di Internet si era reso irraggiungibile: mai lo stesso computer, nickname, provider, sito di incontro. Trasformista anche nel fisico. Di lui solo descrizioni contrastanti, perciò inutili. Dietro di sé non aveva lasciato né impronte né numeri di cellulare. Era bravo a schivare le telecamere collocate in città. Un fantasma, l’avevano definito. E quella sera «il fantasma» avrebbe colpito di nuovo.
Scorpioncina 70 risaliva di corsa via Solari. A rallentarla il marciapiede affollato, i tacchi a cui non era abituata e la borsa (piccola ma pesante). Benché in forma, arrivò in piazza del Rosario madida di sudore. Guardò l’ora: le dieci meno un quarto. Non ce l’avrebbe mai fatta. Lo stomaco le si chiuse in una morsa di delusione: ci aveva messo tanto a trovarlo. Era certa che fosse lui: colto, galante, determinato. A un passo dal darsi per vinta, fu affiancata da un ragazzo in motorino: «Bionda, vuoi uno strappo?». «Mi porti sui Navigli, all’Osteria del Pallone?». Partirono di gran carriera.
Inquieta, dolente e tormentata. E pure una discreta gnocca, a giudicare dalla foto. Marco sbucò da piazza XXIV Maggio. Tavolini affollati, venditori ambulanti, umanità a frotte. L’ideale per passare inosservato. Sarebbe arrivato puntuale, come sempre.
«Ti aspetta qualcuno?» le domandò il ragazzo, girandosi verso di lei, a un passo dalla meta.
«Guarda avanti!» lo ammonì.
Un attimo dopo lo scooter sbandò. Loro furono sbalzati a terra, con violenza. Paura, escoriazioni, ma niente di rotto.
Lui recuperò la borsa, che nell’impatto si era aperta. Gliela passò, ma un oggetto cadde sull’asfalto con suono metallico.
«Che cazzo…» il ragazzo, bocca e occhi spalancati, fissava terrorizzato la pistola.
Le dieci meno due. Preparò il suo miglior sorriso e qualche approccio a effetto. Si stava per andare in scena.
Le dieci meno uno. Ce la poteva ancora fare. Zoppicava e perdeva sangue, ma non era disposta a mollare. Quell’incontro era la sua occasione.
Le dieci. Davanti al locale rallentò il passo, ma non si fermò. Gli bastò un’occhiata per capire che lei non c'era. Eppure avrebbe scommesso sulla sua puntualità. Restare in attesa era un lusso che non si poteva permettere.
Le dieci e quattro minuti. Il vice-ispettore Roberta Gualandri arrivò davanti al punto d’incontro. Uno sguardo e poi afferrò il telefonino. «Niente da fare» annunciò al suo capo, l’ispettore della Mobile Sebastiano Rizzo.

Mesi di indagini finiti in niente.
Il fantasma era passato sull’altro Naviglio. Un gin tonic lo aveva rimesso di buon umore. Una donna bruna, sola, gli lanciò uno sguardo allusivo. Forse c’era ancora tempo per raddrizzare la serata.

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