Una gioielleria tra le ruspe «Da qui non ce ne andiamo»

Una gioielleria tra le ruspe «Da qui non ce ne andiamo»

É rimasto lì, poco più che un cubetto di lego, a svettare sull'angolo della piazza mentre tutto intorno le ruspe ammucchiavano macerie. E anche adesso che le ruspe hanno finito il loro lavoro, e dove c'erano gli stabili più malridotti del centrocittà si è aperta una grande voragine, il cubetto è ancora lì. Un mozzicone di stabile, una miniatura di palazzo che sfida la modernità. L'insegna del negozio di gioielli è ancora al suo posto, e tutte le mattine le commesse alzano le saracinesche e sbloccano la porta blindata. Questo pezzo di Milano sta cambiando. Ma la piccola gioielleria ha deciso di resistere.
Tutto avviene in piazza Beccaria, davanti al comando della polizia locale, all'angolo con piazza Fontana. Per sessant'anni, qui è sopravvvissuta quella che i tecnici chiamano «cicatrice urbana»: un pezzo di tessuto cittadino lacerato e non ricomposto. Mentre nel resto della città le ferite della guerra sparivano e lasciavano spazio al nuovo, in quell'angolo di piazza il tempo non sembrava passare mai. Un vecchio palazzo degradato e malconcio. Sul lato verso piazza Fontana, un ristorante storico, «La casa della bistecca», e una gioielleria. Sul lato opposto, una bottiglieria e il teatro Geronimo. Architettura senza pregi, ma comunque ultima testimonianza di quella presenza popolare che fa parte della storia del centro di Milano: qui accanto c'era il Bottonuto, il quartiere di proletari e di ligèra cantato da Primo Moroni, e di cui oggi si è persa ogni traccia.
Il recupero dell'isolato di piazza Beccaria era iniziato quattro anni fa, con la costruzione della nuova ala del Grand Hotel Rosa. Cinque anni fa il Comune ha dato il via alla demolizione e alla ricostruzione anche dell'area affacciata sul comando dei vigili. Ma qui sono iniziati i problemi, perché c'erano attività commerciali che non fremevano dalla voglia di chiudere. Così la proprietà dell'area è dovuta scendere a patti, offrendo robuste buonuscite in cambio della rinuncia ad opporsi. Tutti hanno accettato, tranne la gioielleria. A quel punto i proprietari dell'area hanno deciso di rompere gli indugi: si comincia lo stesso a demolire, le ruspe tirano giù tutto tranne quell'ultima sacca di resistenza. Quando sarà scaduto il contratto d'affitto, si provvederà a ultimare la demolizione. Ma per il momento la situazione si presenta vagamente surreale.
Ancora più surreale è la discrezione che circonda i dettagli della vicenda. L'area è in mano a una società per azioni, la Sanitaria Ceschina, controllata dalla famiglia omonima: che, interpellata, rifiuta di fornire dettagli nè spiegazioni. I numerosi studi di architetti che lavorano al progetto rispondono anche loro «no comment», «i titolari dell'area ci hanno proibito di concedere dichiarazioni». «Non possiamo rilasciare nessuna notizia», replicano ai cronisti le commesse della gioielleria irriducibile.

E dall'assessorato all'Urbanistica, se si chiede di vedere il progetto approvato, rispondono «trattandosi di un'area privata non possiamo dire nulla». «So che ci faranno degli uffici», dice un vigile che lavora lì davanti.
L'unica cosa certa è che le ruspe hanno spaccato tutto intorno alla gioielleria, che è rimasta lì, come ultimo tassello di un puzzle.

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