Girando per via Tadino e via Lazzaro Palazzi, nel quartiere etnico africano incastrato tra corso Buenos Aires e i Bastioni di Porta Venezia, le dichiarazioni di un mese fa dell'assessore regionale all'Immigrazione, Simona Bordonali (Lega Nord) ora non sembrano più - neanche ai buoni ad ogni costo e agli ottimisti a oltranza - il monito nefasto di una profetessa di sventure: «Questa politica dell'accoglienza a tutti i costi ci porterà allo sfascio - aveva dichiarato la Bordoni -. Regione Lombardia aveva già dichiarato di non avere risorse da destinare a nuovi arrivi sul territorio (...) Purtroppo a breve assisteremo ad altri arrivi, grazie alle scelte scellerate di alcuni Comuni che hanno sostenuto progetti di accoglienza cofinanziati dallo Stato. Solo nel 2014 in Lombardia questi progetti costeranno ai cittadini oltre 9 milioni di euro. E i nuovi arrivi di questi giorni sono stati promossi dal Governo attraverso le Prefetture, senza coinvolgere minimamente gli enti locali, che poi dovranno anche accollarsi le spese per i servizi».
I «nuovi arrivi» sono già qui, in giro per Milano. E a guardarli fanno anche un po' pena: sono ragazzini eritrei (e qualche somalo) che indossano maglie multicolori troppo grandi per loro e ciondolano, soprattutto il pomeriggio e la sera, tra via Tadino, via Lazzaro Palazzi e via Lazzaretto. La mattina fanno colazione in luoghi come il Centro diurno rifugiati di via Kant, la notte dormono nel retrobottega di qualche bar di via Palazzi o in istituti scolastici appositamente attrezzati, come la ex elementare «General Cantore» di via Mambretti 33, a Quarto Oggiaro o in qualche albergo.
«Il problema è che gli ultimi arrivi di marzo, sono stati tantissimi: dia un'occhiata solo qui intorno, guardi tutti questi ragazzini - si anima Mazi, un commerciante eritreo che ogni giorno mangia al ristorante Africa di via Tadino -. Dallo stato italiano prendono e non danno nulla. E non solo: rischiano di cadere vittime della criminalità. Anzi: sono destinati a caderci».
Ci spiega. Nell'attesa di definire le pratiche dell'asilo politico, che deve essere chiesto nello stato di area Schengen dove si arriva - in questo caso l'Italia - questi giovani naturalmente approfittano dei mezzi di soccorso e assistenza con cui il Belpaese li aiuta. Nessuno di loro però vuole rimanere qui. Puntano ai paesi europei del Nord, come Norvegia e Svezia, dove lo stato sociale per i rifugiati è decisamente più accogliente perché ha ancora mezzi economici da mettere a disposizione, ma necessita anche di aiuti, di posti di lavoro. Al contrario di noi.
«Questi giovani - racconta Galima, moglie di Hazi in perfetto italiano, invitandoci a prendere un caffè - tecnicamente in Italia non rifiuterebbero mai l'asilo politico. Sanno infatti che prima che la commissione esamini la loro pratica passerà qualche mese, dai 90 ai 150 giorni. Un periodo durante il quale non solo sono a tutti gli effetti «regolari», ma sono consci che giornalmente lo stato italiano darà a ciascuno di loro 36 euro che garantiscono alloggio, vitto, ricariche telefoniche, biancheria e quant'altro serve per una esistenza dignitosa».
E poi? Cosa succede quando il ragazzo viene chiamato dalla commissione che gli deve concedere l'asilo politico? Si presenta e dice che non lo vuole più?
«Se il richiedente asilo si allontana arbitrariamente la domanda decade in automatico, ma intanto il giovane si è già organizzato per raggiungere il nord Europa. Ed è lì che cade preda di quelle organizzazioni criminali di passeurs, veri mercanti di vite umane senza scrupoli che contrattano prezzi assurdi per un passaggio illegale su auto e furgoni. Lo hanno già fatto con i siriani» conclude Mazi.
Doverosa postilla: la convenzione di Dublino prevede che l'asilo politico debba essere richiesto esclusivamente nello stato in cui il migrante fa ingresso nell'area Schengen altrimenti lo straniero può essere rimandato indietro, attraverso le cosiddette «riammissioni», usate spesso con l'Italia da tedeschi e francesi. Più tolleranti in questo senso, per i motivi di cui sopra, norvegesi e svedesi.
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