Cronaca locale

Intrighi, delitti e segreti: lo ieri di Palazzo Marino

La sede del Comune fu la culla della Monaca di Monza nipote del banchiere genovese che fece erigere l'edificio

La sventurata rispose. E l'enigmatica Marianna si ritrovò addosso il nome di Virginia Maria, la madre che non aveva mai conosciuto. Era ancora in fasce quando la poveretta morì di peste, lasciando la neonata, ricca ereditiera. Correva il 1576 e, tredici anni dopo, Martino de Leyva, suo padre, per impossessarsi del patrimonio, la offrì in moglie al principe di Butera, tale Gustavo Branciforte, un quarto di secolo maggiore di lei. La bambina mostrò mordente. Sdegnata, rifiutò il partito. Papà si fregò le mani. Così le porte del convento le si spalancarono innanzi. E la sventurata rispose.

Per Marianna de Leyva, però, prendere i voti non faceva rima con rinuncia. Né agli uomini, né alla maternità. Non al sesso e neppure al denaro. Si legò a un delinquente e gli diede due figli dalla cella del monastero. Lui, nel frattempo, uccise senza troppi rimorsi novizie in odor di delazione e testimoni più o meno diretti. E più o meno temuti. Finché a morire assassinato fu lui stesso. E la testa di Gian Paolo Osio fu lasciata rotolare sotto l'abitazione del Fuentes, il governatore spagnolo che vi aveva messo una taglia, ma non l'acciuffò mai.

Marianna, divenuta suor Virginia, fu ribattezzata Gertrude dal Manzoni che le cambiò i connotati - arte in cui era maestro indiscusso - romanzandone la figura. Era. La monaca di Monza. Quando il cardinal Federigo - anch'egli finito dritto dritto nelle pagine de I promessi sposi - venne a conoscenza delle malefatte di quella discutibile maestra delle educande, s'infuriò. Riuscì a mantenere la calma e ad ottenerne una sorta di confessione. Dopo interrogatori e riflessioni, la sentenza giunse il 18 ottobre 1608 e dovette tener conto di un'aggravante. In convento l'imputata amministrava pure la giustizia. Per questo era soprannominata la «signora».

Venne condannata ad essere murata viva in una cella e l'arcivescovo decise che la pena dovesse essere espiata nel ricovero delle convertite di Santa Valeria. Situata vicino a Sant'Ambrogio e ora non più esistente, la casa offriva ospitalità a ex prostitute come luogo di punizione e redenzione al tempo stesso. Fu così che Marianna de Leyva, alias suor Virginia, alias Gertrude, tornò nella città dove era nata.

La sua culla era Palazzo Marino, luogo di perdizione politica. Ma questa è un'altra storia. Allora, fu luogo di perdizione e basta. Il nonno di Marianna, Tommaso Marino, rampante e ambizioso, oggi lo definiremmo un faccendiere, ma alle soglie del Rinascimento lo si considerava un banchiere. Fece fortuna quel genovese, allontanato con ignominia dalla sua città che lo bollò come traditore. E, a suo modo, lo fu. Non esitò a finanziare la tresca dei Gonzaga che ordirono una rivolta ai danni dei Fieschi, per conquistare la Repubblica marinara.

Il progetto fallì e l'arzillo quanto danaroso vecchietto - aveva già 71 anni - approdò a Milano con famigliola annessa. E il desiderio di tutto, tranne una serena e indolente senilità. L'affare più lucroso che fece impennare le sue finanze fu uno dei composti chimici più umili. Il sale. Ottenne il monopolio della fornitura veneziana verso Milano e Genova e mise sotto contratto pure il duca di Ferrara. Oltre a bigliettoni in quantità, sul capo di Marino piovvero accuse di corruzione. Egli non se ne curò e, all'alba delle 78 primavere, investì lo sterco del demonio nell'acquisto di una casa più comoda, nell'isolato dove oggi sorge il palazzo che porta il suo nome. Pardon, cognome.

Tommaso aveva una moglie - la genovese Bettina Doria - che sposò tardivamente, ma dalla quale ebbe comunque cinque figli. Tre femmine, due maschi. La primogenita, Virginia, gli avrebbe regalato Marianna, nipotina tutto pepe che il nonno banchiere non conobbe mai, essendo nata alla fine del 1575. L'avo ce la mise tutta e campò fino a 97 anni, ma da lassù qualcuno non volle donargli la gioia del compleanno secolare. In vita, tuttavia, la magione dei Marino si allargò nel tempo fino a occupare l'intero edificio che costeggia piazza San Fedele, via Case Rotte e l'odierna via intestata alla dinastia ligure.

Il vecchio patriarca ne volle fare un gioiello e convocò un perugino di gran fama che legò il suo nome a chiese illustri. Galeazzo Alessi soggiornò in città, silenzioso e laborioso, una decina d'anni. Poi tornò a casa. Dove morì e ora è sepolto. Milano lo ricorda con la sala di prestigio del palazzo municipale. Quella che ospita i tesori dell'arte in itinere. La dama con l'ermellino di Leonardo. La Madonna Esterhazy di Raffaello. L'adorazione dei pastori di Rubens.

Come ogni famiglia, buona o cattiva, i Marino avevano le loro belle mele marce. E le avevano divise perché non mandassero tutto in malora. Illusione reale. Gli zii di Marianna abitavano ai lati estremi del cortile d'onore, in mezzo i vegliardi. Non bastò. Andrea uccise Turisio, servo di suo fratello che - a detta sua - metteva zizzania fra i due. Fuggì per evitare di fare i conti con la giustizia, ma finì diseredato dal padre che all'epoca spegneva 88 candeline. Nemmeno Nicolò era tipo tranquillo. Divorato dalla gelosia, ammazzò la moglie spagnola, provocando l'ira del re che ne chiese la testa. Anch'egli scappò e, in questo, fu un maestro. Nulla di lui si seppe mai. La leggenda alimentò miti evanescenti. C'è chi disse che si fosse fatto frate. E chi sostenne che a toglierlo di mezzo furono i sicari. Di fatto si eclissò.

Le gesta dei due eredi estromessi fecero pessima pubblicità al banchiere. E gli affari precipitarono. L'illustre schiatta finì sommersa dai debiti distruggendo un patrimonio di due milioni d'oro nel 1563. A farne le spese fu anche l'edificio. Deperì fino alla fatiscenza negli anni della peste del 1626. Poi finì come indennizzo di conti mai risarciti e nell'Ottocento fu al centro di una permuta tra beni statali. Così il Comune lasciò il Broletto per trasferirsi in piazza della Scala. Il 19 settembre 1861 Palazzo Marino ospitò il primo sindaco. Antonio Beretta restò in carica fino a luglio 1867. Fu travolto dallo scandalo per la costruzione della Galleria. Aveva strapagato con soldi pubblici vecchi stabili da demolire. Ma in Italia, si sa, la memoria è corta e nel 1871 Vittorio Emanuele II lo nominò conte. Rubare talvolta vale una medaglia.

La sventurata, in fondo, non restò mai sola.

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